Verde facile facile
Sulla copertina del numero due del settimanale Sette Green c’è una bella foto che raffigura Paolo Kessisoglu e Sabrina Donadel. Entrambi posano sorridenti sullo sfondo di un albero. Nelle foto che corredano l’articolo i due – giovani, eleganti, belli – sono ritratti spesso a piedi nudi, un ovvio riferimento alla dolcezza del prato che calpestano. E infatti la didascalia annuncia un servizio “sulla nostra famiglia (che) vive verde: la casa nel centro di Milano dove sembra di stare in campagna, tutta costruita con materiali eco-compatibili. L’alimentazione biologica, aceto e bicarbonato al posto dei detersivi”.
Ho letto il servizio con attenzione fatata – si parlava dell’orto e delle api che impollinano la lavanda – ma alla fine della lettura ho avuto una sensazione di inquietudine. Mi è venuta in mente, credo per banale contrasto, l’immagine di via di Donna Olimpia, la strada dove abito nel quartiere Monteverde nuovo a Roma, densamente popolata. Il mio condominio è composto da sei corpi di fabbrica, in cortina, con piccole aiuole ben curate, ma senza lo spazio necessario a impiantare un orto. Inoltre, abito accanto alle case popolari (anche Pasolini ha abitato lì, com’era bella Monteverde nuovo….) e vedo sfilare una variopinta tipologia di persone, non ricche, mal vestite, gran fumatori di Marlboro e Merit, indefessi frequentatori dei supermercati. Questo modello ecologico, cioè quello proposto da Paolo e Sabrina, è sicuramente di gran moda tanto che i giornali fanno a gara per trovare testimonial ed è tra l’altro associato alla sinistra progressista. Mi sono chiesto, questo modello è giusto? Davvero sostenibile? Esportabile?
Credo seriamente che il mondo così come lo conosciamo è a rischio. Ci sono centinaia di dati a disposizione: è vero che il benessere è in aumento, che i diritti umani si stanno imponendo con forza in molte parti del mondo, è vero che la mortalità infantile è in forte decrescita, che la vita media si sta allungando, è tutto vero, ma purtroppo, stiamo consumando molte delle risorse disponibili. Il pessimista e l’ecologista hanno ragione quando pensano: “il mondo non può continuare così”. È un bene che la nostra sensibilità si orienti in tal senso: non possiamo continuare così, viva Paolo e Sabrina. Quindi sugli obiettivi concordiamo. Il problema nasce e si infittisce e in molti casi si incarognisce quando consideriamo gli strumenti da usare.
Per esempio, siamo sicuri che la pratica agronomica organica, altrimenti, e volgarmente, detta biologica, sia un buono strumento? Su questa pratica c’è un pregiudizio culturale favorevole: la natura è buona, e anche i suoi prodotti. L’intervento dell’uomo è pericoloso: tende a inquinare. Va bene. Per avere però uno strumento di comparazione basta prendere mio nonno, un contadino meridionale. Produceva a regime biologico. Non per scelta etica, per povertà. Niente fertilizzanti (solo letame), niente agro farmaci (sono maledizioni ai santi), niente miglioramento genetico. Le sue lamentele riguardavano
a) gli insetti che mangiavano i prodotti dell’orto – del resto gli insetti non sono sensibili, purtroppo, alle copertine di Sette Green, quindi non riconoscono le nostre buone intenzioni
b) lamentele fisiche: spesso si intossicava, sia perche le norme igieniche erano scarse, sia perché, mancando diserbanti, nella farina spesso finivano erbe infestanti, come la segala cornuta, per esempio. Altre volte, poi, si è intossicato bevendo latte non pastorizzato, e munto a mano, purtroppo la versione cattiva e naturale del batteri Escheritacoli ama il latte naturale non pastorizzato
c) la fame. Appunto, produceva biologico. Le piante che coltivava erano ancora “naturali” avevano subito blandi processi di miglioramento genetico, quindi non erano produttive.
Del resto, per allargare il campo, in alcuni stati africani ancora oggi si produce, non volendo, seguendo i più stretti dettami proposti dall’agricoltura organica, e i risultati sono scadenti. Insomma è un modello sostenibile? Qualche problema di sostenibilità c’è, eccome. Senza considerare che a parte la produzione più scarsa (e i prezzi più alti) per seguire rigidamente i protocolli è necessario aumentare il sesto di impianto tra le piante (no all’agricoltura intensiva! E industriale) il che significa che è necessario avere più terra. Certo, si fa presto a dire così, dove la prendiamo? Gli ettari arabili sono sempre quelli, e sono pure scarsi.
Quello che un po’ infastidisce è che se oggi Paolo e Sabrina possono coltivare un cespo di insalata biologica senza preoccuparsi delle peronospora (un fungo) non è perché basta la parola biologico e tutto si risolve, ma è perché miglioratori genetici, in genere ricercatori mal pagati e che abitano in tristi e vecchie case condominiali, hanno introdotto nel DNA dell’insalata delle resistenze a questo fungo (tra l’altro non tramite la tecnica del DNA ricombinante; legalmente quindi il prodotto non è un OGM, ma il risultato è lo stesso, trattasi di prodotto non naturale ma geneticamente modificato). A oggi sono state introdotte 26 resistenze alla peronospora, quindi niente fungicidi. Se così non fosse, dubito che Sette Green potrebbe realizzare un servizio sull’orto biologico.
Un’altra cosa merita di essere discussa. La frase di Paolo e Sabrina: non usiamo detersivi ma solo aceto e bicarbonato. Ottimo, anche mia nonna faceva così – naturalmente passava la vita a lavare e cucire, poche distrazioni, pochi diritti e poca possibilità di ascesa sociale. Già mia madre grazie alla lavatrice e ai detersivi di sintesi, ha avuto più tempo e più occasioni. Comunque, si intende suggerire che chi usa i prodotti per la casa convenzionali non compie una scelta etica, perché è complice della cattiva produzione industriale, intensiva e irrispettosa per l’ambiente. Se però, pensiamoci bene, anche le persone che abitano nel mio condomino e nelle case popolari, volessero seguire l’esempio nobile di Paolo e Sabrina, se tutti i 56 milioni e passa di italiani passassero all’aceto dovremmo per forza dedicare molta parte della superficie agricola italiana (mondiale) alla coltura della vite. Si creerebbe una coltivazione estensiva, si dovrebbe recuperare terra, disboscare quelle belle nostre foreste appenniniche piene di lupi e di orsi e che consentono, tra l’altro, a Giovanni Lindo Ferretti di trovare un rifugio dentro il quale scrivere i suoi meravigliosi, eclettici, struggenti e mistici pezzi.
Se, faccio per dire, ci piacciono i baccelli di vaniglia naturali e desideriamo che tutti ne possano usufruire a un buon prezzo, allora per forza ci tocca impiantare ettari ed ettari di vaniglia. E metti la vaniglia e l’aceto e le lavande e i piccoli orti, aggiungi questo e quest’altro, alla fine, la terra per coltivare prodotti necessari all’alimentazione, dove la prendiamo? Come mangiamo? Non ci resta che affidarci all’industria del petrolchimico che grazie all’ingegno dei chimici è capace di ricavare a partire dal petrolio la vanillina. La molecole sintetica è identica a quella cosiddetta naturale, gli atomi, si sa, non hanno memoria.
La verità è che abbiamo bisogno di produrre di più e meglio, utilizzando sempre meno terra. Non mi tolgo dalla testa questa sensazione: il biologico, il naturale, rischiano di diventare territorio privilegiato di quelli con tante buone intenzioni ma con poco senso delle proporzioni. Quest’associazione genera egoismo e irresponsabilità, tutto ciò che è nel mio giardino è sano, tutto quello che viene da fuori è malsano. In realtà è grazie ai progressi tecnologici e alla chimica che la produzione e la sicurezza alimentare è aumentata, e possiamo permetterci di avere delle zone franche al biologico. Se non ci fossero quelli che ammazzano insetti con i famosi pesticidi – in realtà ormai, grazie al progresso tecnologico, sono molecole a basso impatto e facilmente degradabili – i giardini e gli orti, sia nel centro di Milano, sia fuori, sarebbero invasi da molti più predatori. Altro che aggettivi fatati e belle case, solo maledizioni. L’altra sensazione è che per una certa sinistra la natura stia diventando quello che per i positivisti era la scienza, qualcosa di inarrestabile e certo. Quindi il politico di sinistra, per paradosso, oggi pensa più al giardino naturale di Paolo e Sabrina che a quelli che vivono nelle case popolari e comprano al supermercato.
È più di sinistra coltivare biologico e stare a i piedi nudi, oppure migliorare la produzione di massa, affinché sia sana, gustosa e sostenibile? Per me la seconda. Insomma, se vogliamo occuparci anche di quelli delle case popolari e di me che vivo in condominio – e se crediamo fermamente che il mondo non può continuare così – ci converrebbe investire un po’ meno soldi in contributi destinati a quelli che coltivano biologico (che, ricordiamo, ricevono contributi statali e scontano un prezzo più alto sui prodotti) e più alla ricerca e all’innovazione tecnologica. Solo così potremmo garantire un’agricoltura sana e meno dipendente dagli imput chimici.
Perché la cosa inquietante è questa: nel futuro non esisteranno piante giganti con grossi frutti. La rivoluzione genetica ha fatto tanto, e più di una certa quota non si potrà andare. Ma noi sappiamo che un buon 20-30 per cento della produzione resta sulla pianta perché danneggiato dagli insetti o dai vari stress (siccità, gelo ecc.). Se i ricercatori riusciranno a dotare le piante di strutture di difesa più marcate, se riusciranno a renderle resistenti a siccità e altro, allora potremmo fare in modo che il mondo sia un posto migliore da abitare, una buona parte del mondo, e non solo il bel giardino di Paolo e Sabrina. Insomma, almeno la memoria (e il dolore) di quelli come mio nonno che hanno contribuito a fare l’Italia sarebbe rispettata, e la bella gente dell’Appennino cantata da Lindo Ferretti anche.
PS: Secondo dati INAIL, oggi i posti di lavoro più sicuri, dove, cioè, gli operai hanno più garanzie, sono i petrolchimici. Questa è la dimostrazione che per risolvere i problemi (la chimica ne ha creati tanti) bisogna denunciare i misfatti ma poi impegnarsi con tutta la cultura a nostra disposizione nel cercare soluzioni tecnologiche all’altezza dei tempi.