Double feature: Men to sūpu dake (麺とスープだけ) e fuki (フキ)

Questa settimana il nostro dizionario tematico di giapponese è un’altra “double feature”, come i vecchi cinema di una volta che facevano il doppio spettacolo. Due termini apparentemente scollegati tra loro se non per il fatto di essere legati all’ambiente alimentare ma che in realtà, secondo me, costituiscono quello che chiamo il “sapore della memoria”.

In particolare, la prima parola di cui parliamo è in realtà una marca: Men to sūpu dake (麺とスープだけ) vuol dire “Solo tagliatelle e zuppa” ed è il nome di una delle millemila varietà di zuppe e ramen instantanei che si possono comprare in millemila piccoli negozi in tutto il Giappone. Solo che questa, come dice il nome, è vegetariana, anzi vegana, e straordinariamente buona. Il perché assoluto non è dato saperlo (come si fa a sapere perché qualcosa è straordinariamente buono?), ma la Men to sūpu dake in realtà è un’ottima chiave per capire proporre un’idea che coltivo da tempo: la percezione del cibo, così come quella del suono, è fortemente legata all’esperienza e alle emozioni. Psicoacustica ma anche psicoalimentazione.

Tipo? Mi viene in mente la ratatouille dell’omonimo cartone animato Disney, preparata dal topo-cuoco Rémy che provoca l’emozione sinestetica del critico Anton Ego, proiettato nei ricordi della sua infanzia campagnola (la caduta dalla bicicletta, la fattoria, la mamma, la ratatouille, piatto povero della provincia francese). Ecco, se trovate la Men to sūpu dake da qualche parte, magari non vi piace ma probabilmente dipende anche da dove eravate voi con la vostra vita quando l’avete incontrata rispetto a dove ero io quando l’ho mangiata la prima volta. Perlomeno, questa è l’idea che mi sono fatto io.

E passiamo alla seconda pietanza, anche questa vegetale. Anzi, è un ingrediente: il fuki (フキ), che sarebbe il Petasites japonicus, una variante del tipo petasites, che in Giappone si consuma soprattutto facendone arrostire sul fuoco i piccioli oppure mettendoli sottaceto o in salamoia. Mentre la famiglia di questa pianta perenne è praticamente universale, la variante giapponese è molto specifica, e viene moltissimo coltivata soprattutto nella prefettura di Aichi (愛知県, Aichi-ken), nonostante sia un alimento consumato tradizionalmente da tutti i giapponesi (salse, salsine ma si trova anche dentro alcuni tipi di sushi).

Tuttavia, un altro posto dove se ne trovano grandi quantità è nella Columbia Britannica, la più occidentale delle province canadesi (quella dove c’è Vancouver, per intenderci).

Come mai? Non si tratta di una migrazione preistorica o di semi trasportati dalle correnti del Pacifico. Dietro invece c’è una ragione molto più prosaica e triste: i semi del farfaraccio nipponico erano molto comuni nei giardini delle famiglie giapponesi che si erano trasferite in Canada all’inizio del Novecento sino a tutti gli anni Trenta.

Durante la seconda guerra mondiale una legge federale canadese (analoga a quella statunitense) privò i nippo-canadesi delle loro case e li fece internare nei campi di concentramento nella Columbia Britannica. Molte delle famiglie internate scrissero ai loro vicini di casa di origine europea (che quindi non erano stati arrestati) e gli chiesero se potevano andargli a prendere dai loro giardini radici e semi di fuki, e spedirglieli.

Molti buoni vicini lo fecero e mandarono nei campi di concentramento buste e scatoline di semi: era uno dei pochi tipi di corrispondenza che non veniva censurato (le lettere scritte in giapponese sì) e fu così che in posti come Camp Tashme il fuki non solo venne coltivato, ma divenne anche un alimento molto importante per la dieta di alcune migliaia di nippo-canadesi, che erano costretti a lavorare alla realizzazione delle strade canadesi ma ricevevano assistenza in modo molto limitato e razionato per quanto riguardava il cibo. Il fuki era diventato ancora più importante per restare aggrappati a una idea di nornalità e a una identità che nel campo di concentramento era stravolta e scivolava via. La coltivazione intensiva di fuki portò la pianta a riprodursi e moltiplicarsi nella zona.

In Canada i campi di internamento per i giapponesi sono esistiti dal 1942 al 1946, adesso la Sunshine Valley e le altre zone con destinazione analoga sono diventate aree agricole oppure sono state trasformate in quartieri residenziali. Le piccole distese di fuki selvatico però sono rimaste a testimoniare un passato che il Canada, ancora più degli Stati Uniti, cerca di non negare. Invece, basta sapere cosa guardare e cosa cucinare, e torna il sapore della memoria.

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Con questo piccolo dizionario tematico di giapponese voglio condividere non tanto una competenza linguistica, quanto una esplorazione intellettuale di un altro modo di pensare e rappresentare le idee con le parole. Non sono un parlante giapponese e quindi è possibile che ci siano micro e macro imprecisioni: se le notate e le segnalate le correggo volentieri e mi considero arricchito dal vostro aiuto.

Nota ulteriore per gli appassionati del genere, e gli impazienti: nella mia newsletter gratuita Mostly Weekly pubblico ogni domenica, fra le altre cose, anche un’altra parola giapponese nella sezione chiamata in modo appropriato “Yamatologica” di cui queste sono versioni ulteriori arricchite.

Antonio Dini

Giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. Scrive di tecnologia e ama volare, se deve anche in economica. Ha un blog dal 2002: Il Posto di Antonio