Double feature: fukinsei (不均斉) e shōganai (しょうがない)

Le parole del nostro corso tematico di giapponese questa volta sono due. Non sono collegate fra di loro, apparentemente, ma in realtà come vedremo un collegamento c’è.

La prima è fukinsei (不均斉), che vuol dire letteralmente “asimmetrico” (gli ideogrammi in cinese segnano più genericamente qualcosa di “irregolare”), ma che significa più propriamente “bellezza nell’asimmetria”. Il presupposto per trovare la bellezza nell’asimmetria parte da un ragionamento indiretto. Nella simmetria infatti si trova la perfezione, che però, come tale, è totalmente aliena all’esperienza umana.

Mettiamola così: come il concetto di infinito, così il concetto di perfezione è per noi inconoscibile e quindi fuori dalla nostra portata. Allora, ci spiega il senso della parola, siccome una forma d’arte deve consentire la percezione di possibilità alternative, ammettendo l’idea del cambiamento e della trasformazione, la bellezza si trova nell’asimmetria, nella differente organizzazione delle parti.

Questo è uno dei sette principi estetici della filosofia zen necessari per raggiungere il wabi-sabi (侘寂), cioè l’accettazione della fragilità del mondo e della sua intrinseca imperfezione. Poi, il wabi-sabi è piuttosto complicato e non è questa la seconda parola di cui parlare oggi. Limitiamoci all’idea di bellezza nell’asimmetria, invece.

È fukinsei, ad esempio, un sorriso irregolare e frastagliato, che tanti problemi causa agli occidentali quando visitano il Giappone. Ricordo con imbarazzo un episodio: una birretta bevuta con l’amico Kouji una sera di una quindicina di anni fa, nel solito localino sotterraneo di Tokyo grande come il mio tinello a Milano. Guardando due ragazze sedute un po’ più in là, commentavamo “che bella!”. Ma ci riferivamo in realtà ciascuno a una ragazza diversa. Io a quella dai tratti regolari e dalla dentatura perfetta, lui a quella meno simmetrica e con i denti più vivacemente distribuiti. Eravamo portatori di due canoni estetici profondamente diversi e l’unica cosa che ci accumunava era la passione per i videogiochi, dei quali ci siamo subito rimessi a parlare.

Se la bellezza, in questa interpretazione fukinsei della realtà, sta sia nell’asimmetria giapponese che nella simmetria italiana, per così dire, è anche perché entra in gioco il secondo termine di oggi: shōganai (しょうがない) o meglio shikata ga nai (仕方がない, letteralamente “è inutile”, “non c’è modo”) che vuol dire “non esiste alcun modo corretto”. Un concetto che provoca un sentimento di resa e di immobilità, perché costituisce un vuoto di senso insuperabile.

Lo shōganai viene di solito interpretato per il suo significato più letterale ma soprattutto più “occidentale”, come se fosse una specie di “c’est la vie”, un “che ci possiamo fare?” rassegnato e fatalista. Ma il termine che da noi sa di disincanto postmoderno o di nihilismo nicciano, non interseca l’universo simbolico giapponese, perché da noi è basato su una razionalità occidentale che porta sempre al bisogno di stabilire dei nessi di causa ed effetto per qualsiasi cosa. In Giappone, semplicemente non è così.

Al contrario, secondo lo shōganai possono succedere cose (e ne succedono, oh se ne succedono) che non hanno alcun senso, sono prive di significato se non per il fatto che accadono. Il senso dello shōganai è semplicemente che a queste cose “non c’è risposta”. La parte difficile infatti è lasciar andare se stessi, il proprio io, ciò su cui si basa il proprio senso del sé, per accettarle. Non cedere all’illusione del pattern recognition, insomma.

Per capirsi, un buon esempio relativamente recente di shōganai è il sentimento nazionale provocato in Giappone dall’accadere dell’inconcepibile: “la trasmissione della voce del Gioiello” (Gyokuon-hōsō, 玉音放送) cioè il discorso di resa del Giappone agli Americani registrato dall’imperatore Hirohito (più propriamente Shōwa-tennō, 昭和天皇) e trasmesso via radio alla popolazione il 15 agosto del 1945.

Un minimo di contesto: la guerra stava andata malissimo, il Giappone era in ginocchio e veniva bombardato quasi quotidianamente in maniera violentissima seppure convenzionale. Gli americani si avvicinavano e si preparavano a invadere le isole maggiori del Giappone, portando la guerra nella madrepatria. A Okinawa, per tre mesi e sei giorni (dal 26 marzo al 2 luglio)  si combattè una delle battaglie più sanguinose del Pacifico, in cui persero la vita 160mila soldati (50mila americani e 110mila giapponesi) in quello che è stato chiamato dagli americani  “typhoon of stell” o “pioggia di acciaio” (tetsu no ame) dai giapponesi.

Poi, nell’arco di una settimana, l’Arcipelago subì a sorpresa il bombardamento atomico di Hiroshima (6 agosto), la dichiarazione di guerra dell’Unione Sovietica e il bombardamento atomico di Nagasaki (9 agosto). A quel punto fu chiaro che era tutto perduto. Eppure era al tempo stesso impossibile, perché il destino manifesto dell’Impero giapponese era invece quello di vincere.

Fu in quel momento che, per la prima volta nella storia del Giappone, accadde l’impossibile. L’imperatore parlò, seppure indirettamente cioè via radio (con un discorso oltretutto registrato la notte prima), rivolgendosi alle persone comuni. Un fatto inaudito. E, in pratica, pur non menzionando mai la resa, disse che aveva ordinato al governo di comunicare agli Alleati che aveva accettato i termini della “dichiarazione congiunta”, cioè le condizione della resa. Fu un passaggio dal significato simbolico enorme ed estremamente complesso, involuto, anche difficile da comprendere (sia per il linguaggio arcaio-formale usato dall’imperatore sia per i riferimenti alla dichiarazione congiunta che era sconosciuta alla maggior parte della popolazione) tanto che un annunciatore, subito dopo il discorso, fece un esercizio di pragmatismo nipponico e spiegò brevemente che tutto ciò significava la resa del Giappone e la fine della guerra.

Insopportabile per molti (nei giorni successivi in parecchi si tolsero la vita) il discorso provocò in realtà una reazione diversa e particolare. Lo racconta il giornalista francese Robert Guillain, che viveva a Tokyo: la maggior parte dei giapponesi che sentirono il messaggio lo accolsero in silenzio e si ritirarono nelle loro case o in ambienti chiusi a contemplare il significato delle parole dell’imperatore e le sue conseguenze. Era semplicemente shōganai, una situazione per la quale “non c’è risposta”. E che induceva alla passività assoluta e al silenzio.

Il vuoto assoluto dopotutto è assurdo, e può solo essere contemplato: ci si perde nella propria dimensione interiore, entrando in contatto per un fugace momento con l’impossibile. È una situazione profondamente asimmetrica, perché è estremamente asimmetrico il rapporto tra il nostro essere e l’irrazionalità dell’universo. E come tale, è un momento fukinsei, in cui c’è anche bellezza in questa asimmetria.


Con questo piccolo dizionario tematico di giapponese voglio condividere non tanto una competenza linguistica, quanto una esplorazione intellettuale di un altro modo di pensare e rappresentare le idee con le parole. Non sono un parlante giapponese e quindi è possibile che ci siano micro e macro imprecisioni: se le notate e le segnalate le correggo volentieri e mi considero arricchito dal vostro aiuto.

Nota ulteriore per gli appassionati del genere, e gli impazienti: nella mia newsletter gratuita Mostly Weekly pubblico ogni domenica, fra le altre cose, anche un’altra parola giapponese nella sezione chiamata in modo appropriato “Yamatologica” di cui queste sono versioni ulteriori arricchite.

Antonio Dini

Giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. Scrive di tecnologia e ama volare, se deve anche in economica. Ha un blog dal 2002: Il Posto di Antonio