Taishū engeki (大衆演劇)

La parola di questa settimana per il nostro corso tematico e culturale di giapponese è taishū engeki (大衆演劇), letteralmente “il teatro per le masse” o teatro popolare leggero.

È un genere di teatro popolare che possiamo immaginare come una specie di società segreta e chiassosa, rumorosa e colorata. Oltre che particolarmente polemica. Altro che kabuki, bunraku e nō. Il taishū engeki è proprio un’altra cosa. Ma ne parliamo tra un attimo, prima vediamo come funziona.

Lo spettacolo codificato dalla tradizione è diviso in due parti ben separate: prima propone un dramma dell’epoca Edo, però con lo stile di una soap opera, e poi nella seconda parte si balla e si canta con un sacco di musica (musica di stile melodrammatico enka con sonorità tipo lounge, macchine del fumo in azione, effetti luminosi, tanto pacchiano per la coreografia). E soprattutto, si rompe il quarto muro e si permette ai fan di interagire con gli attori e ballerini, costruendo una relazione piuttosto vivace e complessa sul palco e in platea. Praticamente un mix da kabuki, opera, musical tipo Broadway e The Rocky Horror Show come a Milano lo facevano al Cinema Mexico. Si balla e si canta all’unisono, si fa chiasso e ci si diverte. È lo spirito del teatro e della musica popolare tradotto con gli stili e gli stilemi contemporanei (qualcuno ha detto camp?).

Ci sono più di cento troupe di taishū engeki in Giappone, con una ventina di performer ciascuna. Ognuna porta avanti una tradizione antica seguendo uno schema ereditario tipico delle vecchie compagnie teatrali o del circo: non sono parenti di sangue ma si “adottano” adoperano lo stesso cognome. Ogni compagnia è riconoscibile perché ha il suo teimon (il mon (紋) è l’emblema, oggi il logo ma anche lo stemma del casato). Dal punto di vista di chi fa parte della troupe c’è quindi un forte elemento identitario, che si riflette anche nello zoccolo duro del pubblico, appassionato e fedele a una particolare compagnia.

Dicevo sopra che il taishū engeki è codificato come un “teatro per le masse” o teatro popolare, ma non è esattamente così. Intanto, c’è un problema simile a quello delle arti occidentali: l’evoluzione, la codifica e il fenomeno di elevazione dello status di un particolare genere di attività performativa.

Il kabuki, il bunraku e molte altre forme premoderne di arti dello spettacolo in Giappone erano originariamente una forma di intrattenimento per i contadini o per le classi popolari. Le super-colte e super-sofisticate classi dominanti tipo ispirate dall’epoca Heian (attorno all’anno mille, per intendersi: è l’epoca d’oro della corte  dell’Imperatore, arricchita dalla filosofia cinese grazie ai monaci buddisti “colti” e allo sviluppo delle arti, soprattutto la scrittura e quindi la poesia), facevano altro. Cose molto più fini ed esclusive. Cose più cerebrali, meno esplicitamente passionali, consolatorie e catartiche. Un po’ come i nostri intellettuali di una volta, quelli che negli anni Ottanta e Novanta non guardavano la tv (brutta, cattiva e nazionalpopolare) ma andavano a teatro o all’opera a masticare tra gli altri (paradossalmente) Verdi e Puccini.

In Giappone, con il passaggio dei secoli e l’effetto della nostalgia, kabuki e bunraku sono diventate cose serie, sono state viste come “arti tradizionali” e hanno assunto un’importanza e un’aria di alta cultura che al buon vecchio taishū engeki non è concessa. Quest’ultimo invece è rimasto una forma scapigliata, un po’ maramalda e caciarona, ma anche un quesito aperto nella stessa cultura giapponese.

Infatti i critici e i sociologi giapponesi si accapigliano ancora oggi, con un dibattito basato sul filo delle parole, piuttosto rovente. In Giappone il termine “taishū engeki” a causa del suo significato letterale è considerato sia vago che controverso. La forma d’arte è più specifica e singolare di quanto possa implicare il termine generico di “teatro di massa” e l’idea che sia un teatro “banalmente” rivolto alle masse, è molto criticata.

In particolare, ci sono quelli all’interno del mondo del taishū engeki (oltre a quelli che ci lavorano anche i supporter più appassionati e fedeli) che si oppongono alla denotazione plebea della parola taishū (le masse, appunto) e che ritengono che questo termine sia un accidente della storia appiccicato ingiustamente a un’arte tradizionale derelitta e al tempo stesso migliore delle altre perché libera dalla codifica storica e quindi ancora vitale e cangiante. Una posizione da botte piena e moglie ubriaca, insomma.

Tuttavia, sia come sia, in mancanza di un termine migliore il nome “taishū engeki” continua ad essere ampiamente utilizzato sia dai critici che dagli stessi performer. Per questo, viaggiando in Giappone armati di passaporto vaccinale, se vi capiterà andateci. Vi divertirete, anche se vi garantisco, per averlo provato, che non ci capirete una pizza. Ma proprio zero.


Con questo piccolo dizionario tematico di giapponese voglio condividere non tanto una competenza linguistica, quanto una esplorazione intellettuale di un altro modo di pensare e rappresentare le idee con le parole. Non sono un parlante giapponese e quindi è possibile che ci siano micro e macro imprecisioni: se le notate e le segnalate le correggo volentieri e mi considero arricchito dal vostro aiuto.

Nota ulteriore per gli appassionati del genere, e gli impazienti: nella mia newsletter gratuita Mostly Weekly pubblico ogni domenica, fra le altre cose, anche un’altra parola giapponese nella sezione chiamata in modo appropriato “Yamatologica” di cui queste sono versioni ulteriori arricchite.

Antonio Dini

Giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. Scrive di tecnologia e ama volare, se deve anche in economica. Ha un blog dal 2002: Il Posto di Antonio