Obbligo di talento
Secondo me non tutti (noi adulti) siamo creativi e soprattutto non tutti abbiamo dei talenti da realizzare. Per questo motivo non amo la retorica mainstream centrata sull’idea di “ciascuno deve realizzare il suo potenziale” che è diventata da possibilità un diritto di “essere realizzati”. Mi spiego meglio.
Garry Kasparov, il campione di scacchi oggi autore e benefattore, in un articolo per il Washington Post parla della straordinaria vittoria a scacchi di un bambino di 8 anni originario della Nigeria che vive in una casa-famiglia negli Usa, e del talento. A riguardo del quale, ha una idea piuttosto chiara:
My answer was always the same: Talent is universal, but opportunity is not, and talent cannot thrive in a vacuum. Finding talent is a numbers game — the more players there are, the more excellent ones will be found.
Mi piace l’approccio: dobbiamo lavorare sulle opportunità. Bisogna dare a tutte le persone la possibilità di individuare il proprio eventuale talento, e, a coloro i quali ne hanno, farlo crescere. Sono pochi e difficili da trovare, perché spesso non vengono aiutati da piccoli. Certamente non sono tutti talentuosi. Ma è un obiettivo della società e, in certa misura, un suo beneficio, più che quello dei singoli.
Mi spiego meglio. Kasparov, in un libro uscito pochi mesi fa, Deep thinking: Where Machine Intelligence Ends and Human Creativity Begins, oltre a raccontare il dietro le quinte della sua sconfitta da parte della “macchina” nel 1987 (Ibm Deep Blue, il nonno di Watson), centra il libro su una idea: “technology can make us more human by freeing us to be more creative”. È uno degli obiettivi, se non l’obiettivo principale, almeno in apparenza, delle nostre società: un ideale verso il quale tendere. Realizzare il nostro potenziale. Essere il più creativi e liberi possibili. Realizzare il nostro talento, proprio come nella parabola del Vangelo di Matteo (25, 14-30). Che però, parla decisamente d’altro: più della rettitudine e della saggezza che non della volontà di esprimere se stessi o di aver successo. Alla società invece il talento e la creatività servono, così come servono le startup. Non è detto che serva alle persone, messe in gara per realizzare il proprio presunto potenziale. Il costo dell’insuccesso per l’individuo è infatti altissimo. E immotivato. Anche perché il bersaglio, il punto di arrivo, non si sa quale sia.
Oggi infatti i termini e le definizioni sono talmente vaghi che è praticamente impossibile capire cosa voglia dire “avere talento” e “realizzarlo”. E come misurare questo, poi? Con il successo? Con i soldi? Con un senso di appagamento e realizzazione di noi stessi? Con le metriche correnti della società? Ognuno a modo suo, anche se in conflitto con gli altri?
Non mi piace, oltretutto, l’idea che il talento e la creatività siano caratteristiche la cui realizzazione serve a dimostrare la realizzazione dell’individuo. Come dire: talenti obbligatori, e chi non se ne ritrova sappia che non è completo, non è intero.
E se l’obiettivo fosse più semplicemente crescere e diventare saggi? Cosa vorrebbe dire? Essere saggi è una forma di talento o è il punto di uscita di un processo di crescita e di apprendimento che viene da una buona famiglia, da una buona scuola, da una buona società? Oppure questo processo di maturazione interiore è un processo che può andare avanti anche in condizioni avverse? E soprattutto, occorre del talento per diventare saggi? Non ho risposte. Non credo che l’intelligenza artificiale, messa accanto a me per liberarmi e rendermi capace di essere più creativo, sia una risposta. Casomai uno strumento, ma non una risposta.
Un’altra domanda secondo me rilevante è: perché questa ossessiva ricerca del talento e specificamente della creatività? Chi è che trae la vera utilità da questo progetto sociale? Un obiettivo evidente è quello della funzione lavorativa ed economica: in una parola, industriale. Dare una forma così spinta e competitiva all’agire delle persone non ha un effetto positivo sui singoli. È come al casinò: gli scommettitori (i singoli che cercano ossessivamente di realizzare i propri talenti) perdono sempre salvo le solite eccezioni. A vincere è invece il banco, cioè – direbbero i marxisti – l’assetto sottostante del capitale.
Invece, se guardiamo meglio, l’impostazione potrebbe essere molto differente.
È un tema straordinariamente complesso le cui coordinate vengono costantemente ridisegnate. Offrire a tutti l’opportunità di sviluppare “la migliore versione di se stessi” con accesso e incentivi ai più meritevoli. Ma anche, rendersi conto che questo non implica automaticamente che tutti abbiamo talento e che tutti dobbiamo raggiungere uno stato incantato di realizzazione della nostra creatività. Anzi.
L’obiettivo dello stato sociale di diritto – quello in cui viviamo dal 1948, al netto dei tentativi ricorrenti di spanconarlo – è quello di tutelare la salute come gli altri diritti di cittadinanza, tra cui il diritto allo studio. Per i meno avvezzi alla nostra Costituzione: l’articolo 34.
È un articolo fondamentale perché prevede gli strumenti necessari a mettere tutti in condizione di realizzare la versione migliore di sé all’interno di una società (la Repubblica) fondata sul lavoro (e non sulla “felicità”, che è un problema dei singoli, non dello Stato) in cui il merito consente di raggiungere determinati risultati ma in cui lo Stato si impegna anche attivamente a tutelare chi ha bisogno e in generale a rimuovere le barriere per tutti, non solo per quelli bravi, che vanno bene a scuola e hanno un sacco di talento.
Nei primi due commi dell’articolo 34 viene presentato il diritto all’istruzione, che è fondamentale (al punto da essere obbligatorio) per poter creare individui funzionanti all’interno di una società democratica:
La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita.
E poi nei secondi due commi c’è il diritto allo studio, che è un diritto soggettivo:
I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.
Non basterebbe interpretare, chiarire e realizzare questo? Lo sappiamo da più di 70 anni.
Ps: intanto non sapevo fosse uscito un libro che forse tocca – almeno a giudicare dalla quarta di copertina – buona parte di questo tema. Ho ordinato Contro l’ideologia del merito di Mauro Boarelli e poi vediamo cosa dice veramente. Intanto, la quarta:
Cosa significa esattamente merito? Questa parola seducente mantiene ciò che promette? Oppure è una parola ambigua? Grattando la superficie, il merito mostra la sua vera natura: quella di una ideologia che sta trasformando la scuola, l’università, il sistema sanitario, la pubblica amministrazione, il mondo del lavoro nel nome della concorrenza e del mercato. Il concetto di cittadinanza è messo a rischio, e con esso il principio dell’uguaglianza sociale. Dietro al merito si nascondono questioni cruciali per comprendere il nostro tempo.
Invece, questo post è un estratto della mia newsletter, Mostly Weekly.