Tim Cook a Firenze è stata una sorpresa
Non fai in tempo a recensire il nuovo telefonino di Apple che subito viene in Italia il suo Ceo, Tim Cook. A Firenze, tra tutti i possibili posti (ricordate l’inaugurazione dell’Apple Store?). Ci vai e trovi una sorpresa che non ti aspettavi.
Per la precisione: è Tim Cook la sorpresa che non mi aspettavo. Il perché è presto detto. Sono un po’ più di quindici anni che per il mio lavoro di giornalista seguo Apple: ho partecipato a un numero industriale di keynote tra i vecchi MacWorld, gli Apple Expo, le WWDC, gli eventi speciali e tutto l’apparato di incontri che Steve Jobs prima e adesso Tim Cook hanno orchestrato con il loro pubblico: vip, stampa, sviluppatori, stakeholder, pubblico pagante. Negli ultimi tempi della vita di Steve Jobs – scomparso a ottobre del 2011 – la liturgia stava già cambiando, ma è con la sua morte che gli eventi sul palco dei keynote hanno preso piuttosto decisamente un’altra piega. Più corali, più fattuali, forse con meno “visione del mondo” che invece era la polvere magica che Jobs sapeva spargere, i keynote sono rimasti comunque uno degli appuntamenti che più attira la curiosità della rete e dei media. Ti aspetti sempre il colpo a sorpresa, il prodotto da fantascienza (tipo l’iPod, tipo l’iPhone, tipo l’iPad). Non sempre succede, anzi secondo i numerosi critici non succede più da parecchio tempo. Non sono d’accordo ma se ne può parlare.
Quel che è indiscutibile invece è che è cambiato il modo: gli executive di Apple (Craig Federighi, Eddy Cue, Phil Schiller, Jony Ive) non solo parlano di più, ma hanno anche cominciato a rilasciare interviste alla stampa – prevalentemente americana –, mentre manager di livello intermedio addirittura vanno ospiti di eventi organizzati per altre aziende.
Non siete stupiti? Dovreste, perché il dogma per un decennio e più è stato che per Apple parla una sola persona, cioè Steve Jobs, e gli altri non esistono. O, se esistono, non parlano. Tutto per una questione di controllo assoluto della comunicazione. Invece ora molte più persone di Apple vanno sul palco, oltretutto palchi di altre aziende e quindi non controllabili sino in fondo. Ad esempio è accaduto con Ibm, che quando parla della sua partnership con Apple nei raduni organizzati per i clienti, partner e forza vendita, invita sul palco sempre qualche dirigente di seconda fascia, responsabile della gestione della partnership: mi è capitato di vederlo a Las Vegas un paio di anni fa. Sembra una cosa irrilevante, ma nella complessa e molto controllata modalità di comunicazione di Apple a cui accennavo poco sopra, questa è stata una sorta di rivoluzione.
Torniamo a noi. Tim Cook è arrivato a Firenze. Io sono andato a fare il mio lavoro di cronista e ho scritto un po’ di articoli a caldo (1, 2, 3, 4, 5, 6) per raccontare che cosa stava succedendo durante l’incontro annuale dell’”Osservatorio permanente giovani-editori” di Andrea Ceccherini, che lo aveva invitato. Al cinema-teatro Odeon Tim Cook, introdotto da Ceccherini e intervistato da Maria Latella (che è una giornalista piuttosto nota), ha parlato a braccio per un’ora circa rispondendo alle domande di Latella e poi dei ragazzi. Niente era scritto, niente era preparato, né le domande né le risposte, che venivano fuori “senza filtro”.
I temi toccati da Cook sono stati davvero tanti e, a me sembra, con una onestà invidiabile e una considerevole mancanza di ego. Su Steve Jobs, che invece di ego ne aveva quanto una rockstar e aveva imparato ad usarlo per fare marketing ai suoi stessi prodotti, sono letteralmente stati scritti un paio di dozzine di libri. Parlare di Apple e parlare di lui e del suo carattere, della sua personalità, era praticamente un tutt’uno. Adesso, dopo un periodo di iniziali curiosità e perplessità da parte della stampa e degli analisti, di Tim Cook non parla praticamente nessuno (beh, io un ebook su di lui l’ho scritto, ma questa è un’altra storia). Lui lascia molto spazio agli altri, fa discorsi abbastanza generali e sul palco dei keynote appare sempre un po’ legato, quasi in imbarazzo (anche se adesso è parecchio più sciolto di prima). Sembra un personaggio da seconda fila, una specie di contabile in capo dell’azienda. In realtà non è per niente una figura secondaria e, per capirlo, paradossalmente dovevo andare sino a Firenze.
Prima e dopo l’evento tenuto con i mille ragazzi del progetto “Il Quotidiano in classe” di Ceccherini, c’è stato anche ovviamente tempo per Cook per una visita alla città -a cui la stampa e quindi il sottoscritto non era ammesso- e poi dopo una cena con i direttori dei grandi giornali tipo Corriere e Il Sole 24 Ore e altri vip (imprenditori etc) a cui, idem, neanche questa volta c’era spazio per i cronisti come me. Le mie osservazioni vengono tutte, dunque, dalla piccionaia del cinema-teatro Odeon. Letteralmente. Ero asserragliato là, con una pattuglia di giornalisti-da-riporto (a parte una lodevole eccezione, mancavano quelli che a quanto pare si spostano solo se c’è la gita di classe per San Francisco), a raccontare le minuzie della giornata.
Questo invece è il mio blog e dunque lo spazio per dire che che cosa ne penso, che cosa ho capito. La prima cosa è che, oltre al Mac e all’iPhone, c’è di più. Parecchio di più. Tim Cook ha scelto di spendersi in pubblico per eventi in cui ci sia l’occasione di parlare della tecnologia ma solo come elemento trasformativo che tocca temi molto più antichi, più profondi e più importanti. A cominciare dalle discriminazioni contro chi è diverso (Cook è dichiaratamente gay anche se non si ritiene un attivista, ma ritiene che dire che il Ceo di Apple sia gay possa essere di un qualche aiuto per ragazzi e ragazze che si sentono diversi e discriminati in una fase critica della loro vita), citando anche il sermone del pastore Martin Niemöller, senza peraltro ricordarne il nome (e vorrei vedere voi):
“Quando i nazisti presero i comunisti,/ io non dissi nulla/ perché non ero comunista./ Quando rinchiusero i socialdemocratici/ io non dissi nulla/ perché non ero socialdemocratico./ Quando presero i sindacalisti,/ io non dissi nulla/ perché non ero sindacalista./ Poi presero gli ebrei,/ e io non dissi nulla/ perché non ero ebreo./ Poi vennero a prendere me./ E non era rimasto più nessuno che potesse dire qualcosa”.
Dal cyberbullismo a chi è bigotto, la diversità è il valore da difendere, dice Cook. Che poi parla dell’importanza dei dreamers per gli Stati Uniti, nazione fatta da immigrati (con buona pace dei nativi americani), della responsabilità e dei suggerimenti datigli da Steve Jobs, della fede in sé stessi, della necessità di non arrendersi perché i momenti brutti sicuramente passano, del rapporto che stiamo cominciando a costruire con il codice e il computer, del perché cambiare il mondo, di come fare a pagare le tasse in modo più giusto (pur già pagandole), fino alla privacy e al terrorismo, al diritto di mantenere la riservatezza delle proprie informazioni anche davanti al governo e una critica all’attuale presidente Donald Trump protezionista e isolazionista.
Non ho riassunto tutto, sono quasi parole in libertà le mie anche perché è nella natura delle interviste corali una certa frammentarietà, ma come vedete è stato un parterre di argomenti davvero ampio e secondo me anche sorprendente. Sorprendente non solo per quello di cui si è parlato ma del modo con il quale Cook ha candidamente spiegato la sua visione del mondo. È una visione basta su una forza profonda ma calma, tranquilla. Una leadership da interpretare nel senso che ha indicato Ceccherini: il leader è colui che custodisce la meta per tutti gli altri, che fa da guida lungo la via. Cook è pragmatico ma anche esplicitamente ottimista (con una certa sorpresa di Latella), capisce l’importanza di essere se stessi e di seguire i propri sogni, lavorando duramente per realizzarli.
Ascoltarlo variare al di fuori degli argomenti puramente tecnologici, che non sono materia da keynote, ma che con la tecnologia mantengono un legame serrato mi ha dato la dimensione di un uomo che crede profondamente e tranquillamente in quello che dice. L’idea di fondo è che la tecnologia sia neutra ma debba avere una umanità “soffiata dentro” da chi la costruisce e da chi la adopera perché cambierà, sta cambiando, tutto uanto: dalla sanità all’istruzione, dal lavoro a distanza ai settori più insospettabili, inclusa la politica: quello che altrove viene definito con l’espressione “digital disruption”. A mio avviso è una idea onesta e sincera.
Poi, Apple e Tim Cook portano con loro, oltre a una dimensione gigantesca e a una energia calma ma pressante, anche l’idea di essere un po’ i primi della classe. Apple è “pulita”, ricicla, usa le rinnovabili, pensa ai clienti prima che agli altri soggetti del mercato e produce oggetti belli e dotati di caratteristiche notevoli per quanto riguarda usabilità, ma anche sicurezza, privacy, senso, cura dei particolari (tranne quando ce n’è meno oppure la forma comincia a prevalere sulla funzione). I primi della classe comunque non fanno tanta simpatia e forse per questo c’è, in rete come fuori, un coro di “arrabbiati” che scaglia senza problemi la prima e anche la seconda pietra. Non credo siano tutti pagati dalla concorrenza (forse buona parte sì, chissà) e in parte seguono lo spirito del nostro tempo, cioè un disincanto che non lascia spazio ad alcuno stupore e ad alcuna meraviglia. Se è così, è un peccato fondamentalmente per loro.
La sera, sul treno che mi riportava a Milano da Firenze, ho finito di scrivere gli ultimi articoli che ho linkato sopra e poi ho cominciato a ripensare con calma al senso di quel che avevo visto. Penso, a qualche giorno di distanza, che sia questo: nella mia lavoro di giornalista che segue Apple ma anche un buon numero di colossi americani e non del settore tecnologico mi è capitato di incontrare e intervistare molti amministratori delegati, star e primedonne. C’è stato un tempo anche per Steve Jobs ma mai direttamente per Tim Cook, se non per questo “spazio” ambiguo che è una intervista collettiva davanti a una platea di ragazze e ragazzi. Però la sensazione, con un po’ di empatia, è che Cook sia facile da sottovalutare. Ma che farlo sia un errore enorme, credetemi. Quest’uomo è tutt’altro che un banale burocrate. Ha misura e garbo, e questo lo rende meno “protagonista”. Però a me lo ha fatto piacere di più, perché sotto una superficie tranquilla è fatto di una lega di forza, consapevolezza e valori che, oggi, ritengo sia non solo rara ma anche molto preziosa.