Chinamen e altre storie
Quando sono arrivato a Milano, oramai adulto, dopo un primo anno in una specie di residence, per un caso sono andato a vivere a Chinatown. Un amico stava lasciando un appartamento in condivisione e io stavo cercando un posto da chiamare casa: lui è uscito e io sono entrato. Tempo un paio di anni e i coinquilini se ne sono andati per matrimoni e altre scelte esistenziali, e io, che nel frattempo avevo acquisito una autonomia tale da consentirmi di abitare da solo anziché condividere la casa con altri, ho deciso di restare nell’appartamento da solo. Il risultato è che dal 2000 abito a Chinatown: lo scrivo pubblicamente per rendermene conto: è veramente un sacco di tempo.
Ho visto il quartiere, che sento molto “mio”, cambiare in maniera profonda, pur essendomi perso i passaggi degli anni Ottanta e Novanta che intuivo essere stati ancora più trasformativi. Ma in realtà non c’è solo questo. Chinatown a Milano ha una storia antica, mentre quella che posso raccontare io è sostanzialmente la storia breve dell’inizio e poi sviluppo della gentrificazione voluta peraltro dall’allora sindaco Letizia Moratti. Una gentrificazione che ha portato alla semi-pedonalizzazione di via Paolo Sarpi (mossa che condivido appieno anche se fatta un po’ a caso: neanche una pista ciclabile vera è stata prevista!) e che poi ha continuato con l’espansione edilizia delle aree circostanti. Chinatown era infatti un tassello di un quadro più ampio che prevedeva il rifacimento della stazione Garibaldi e lo sviluppo che ha preso quasi un quarto di Milano, incluso il per me non bel palazzo voluto sul suo terreno dalla Feltrinelli dove ora convivono Fondazione omonima e sede “smart” di Microsoft.
Quella storia però non fa parte di Chinatown. Il paese abitato dai Chinamen è un altro e sta dentro i confini del triangolo Montello-Canonica-Sarpi o poco più. È un triangolo che si è sviluppato con una storia che affonda in più di un secolo di vita. Una vita che non ero riuscito finora a mettere assieme e a conoscere, un po’ per pigrizia, un po’ per la mancanza sottomano ad esempio di un buon libro che me la raccontasse. Non l’avevo mai neanche cercato, se devo dire la verità, fino a che non è stato lui che è venuto a cercare me. Anzi, loro due.
Qui infatti entrano in scena due miei amici, Ciaj Rocchi e suo marito Matteo Demonte, e i due fumetti che hanno realizzato in tre anni, grazie ai quali mi sono fatto un quadro più completo di Chinatown che non nei quindici precedenti.
Il primo libro si intitola Primavere e Autunni, ed è un viaggio intimo nel passato di Matteo, cioè della sua famiglia. La storia di Wu Li Shan, giovane venditore ambulante di cravatte arrivato a Milano nel 1931, e di sua moglie, la sarta italiana Giulia, è la storia che apre i cancelli di Chinatown e comincia a mostrare, a partire daglia anni del fascismo, l’incontro di culture diverse: quella cinese con quella fascista e milanese. Lo sfondo vede la caduta del fascismo, la rivoluzione maoista che taglia definitivamente e dolorosamente i ponti con la madrepatria, la nascita di una idea di imprenditoria che fa da leva per la loro integrazione.
La storia che viene raccontata è quella dei nonni di Matteo, ma è raccontata in realtà da Ciaj, mentre Matteo studia e disegna, rivive il suo cinese per tracciare gli ideogrammi, sperimenta modalità grafiche con il computer per disegnare. Il finale è un realismo apparente, costruito con naturalezza e ricchezza di scelte. È lontano dalle scuole di comics che gli appassionati di questo settore conoscono, perché intellettualizza i segni con un gusto unico per lo stile storicizzante del tratto fotografico. È un inganno, non ricalca fotografie, ma ricrea con passione e in maniera appropriata un immaginario.
Questa felicità di disegno, questa ricchezza di scelte e particolari continua in maniera ancor più fortunata con il secondo libro. In questo caso la storia raccontata da Ciaij e da Matteo cambia prospettiva: il libro si chiama Chinamen perchè generalizza e allarga l’obiettivo al secolo dei cinesi a Milano. La storia del nonno Shan diventa un’altra cosa, una piccola e penetrante inchiesta sui primi cinesi arrivati in Italia: da dove venivano? Cosa facevano? Cosa rappresentavano nella storia di un Paese come il nostro?
Quando ho fatto ricerche per un mio ebook sull’altro Expo di Milano (1906 Expo a Milano, pubblicazione gemella di Expo 101) avevo visto che il terreno dietro il Castello Sforzesco, quello che oggi è diventato il parco Sempione e che all’epoca era un grande spiazzo per manovrare con i reggimenti acquartierati nella struttura rinascimentale, aveva ospitato tra gli altri padiglioni anche quello della Cina e che l’occasione era stata preziosa per far entrare in contatto nella contemporaneità le due culture. Fu in quel contesto che apri temporaneamente il primo ristorante cinese in Italia e i visitatori italiani poterono assaggiare i piatti del Celeste Impero.
Non sapevo che proprio dall’Expo di Milano del 1906 che celebrava il lavoro (e il completamento del traforo del Sempione) sarebbe nata la prima scintilla di interesse per l’Italia e Milano (oltre che Bologna) di tanti cinesi. Era l’inzio di un percorso di immigrazione e integrazione completamente differente da quelli a cui siamo abiutati a pensare. La tenuta narrativa di questa indagine e la sua capacità di ricostruire oltre che di evocare cento anni di storia completamente assente dalle nostre narrazioni condivise è deliziosa e straordinariamente efficace. Oltre che svelatrice di tanti stereotipi sui cinesi che nel tempo l’ignoranza di una comunità sicuramente molto chiusa ha permesso si accumulassero. Mi è spiaciuto che questo lavoro fosse più corto del primo, ma forse Chinamen ha una maturità e forza di guardare in profondità che nel primo non è ancora così sviluppata.
Dopo aver letto questi due libri-inchiesta-fumetti, che si distaccano dalla tradizione di tutto quel che ho letto di fumetto (e che non è esattamente poca roba, come possono dire tutte le persone con i quali ho convissuto e che hanno dovuto condividere i loro spazi con la mia carta), ho cominciato a guardare diversamente il mio quartiere. A vederlo in prospettiva, a sentirlo di più la mia casa, camminando nel presente ma cercando di arricchire la conoscenza del passato. Vorrei che ci fosse un terzo libro che raccontasse con lo stesso sguardo attento e penetrante la cronaca degli ultimi anni: l’attuale trasformazione di Chinatown con la nascita di tanti ristoranti, posti per finger food, locali, tatuaggi, movimenti giovanili, ma anche nuovi ingrossi, nuove occasioni di incontro e di confronto.
Per quanto riguarda me, che sono sempre stato affascinato si dall’infanzia dalle culture esotiche, cioè quelle che vengono da fuori, proprio perché lontane e diverse in tutti i modi possibili dalla mia, aver letto questi due libri mi ha regalato la possibilità di dare tridimensionalità al piccolo Salgari che è in me, e che si rallegra ogni mattina quando esco di casa ed entro nel timido caos della mia Chinatown.