Pimp My Hasselblad
La scorsa estate ho avuto la possibilità di fare un esperimento. Ho provato per qualche settimana a convertire la mia vecchia macchina fotografica analogica medio formato (tra un attimo spiego meglio cos’è) di fine anni Cinquanta in un apparecchio digitale ad altissima risoluzione. I risultati sono stati degni di nota. Proprio per questo motivo li racconto qui. Per capire per bene cosa ho fatto, però, credo occorra una premessa tutta analogica, che poi è quello che leggerete in questo post. Nella seconda parte (tra qualche giorno, ma prima devo pubblicare un altro paio di cose che ho già scritto) parliamo invece della parte digitale.
1 – Mr. Hasselblad
Mi piace la fotografia e continua a piacermi scattare non solo in digitale ma anche in analogico, cioè con la pellicola (o “film”, come si dice in inglese, creando non poche ambiguità e fastidio da noi, come quando si dice “lente” intendendo tradurre a orecchio “lens”, cioè obiettivo fotografico in inglese).
Da alcuni anni, complice il crollo del mercato fotografico analogico, ho comprato una macchina fotografica un tempo estremamente costosa – che non mi sarei mai potuto permettere – a un prezzo molto più basso di quello dei tempi d’oro. Si tratta di una Hasselblad 500c, prima versione targata 1957 dell’ammiraglia svedese della fotografia medio formato.
Victor Hasselblad (1906–1978) è l’imprenditore svedese che durante la guerra costruì per conto dell’esercito del suo Paese un apparecchio fotografico da usare per la ricognizione aerea costruito sulla falsariga di quelli nazisti. La Germania fino al secondo dopoguerra era il Paese con la tecnologia allo stato dell’arte per la fotografia, e produceva alcuni dei migliori strumenti ottici, dalle macchine e obiettivi Leica a quelli Zeiss.
Hasselblad, che peraltro importava in Svezia materiale fotografico e macchine fotografiche dell’americana Eastman Kodak, non solo realizzò un ottimo apparecchio per la ricognizione aerea destinato all’Aviazione Militare svedese, ma decise anche di realizzare un proprio strumento fotografico da lanciare sul mercato. Con la collaborazione di tutti i dipendenti in una gara di design interno e con la consulenza dell’ingegner Ferdinand Porsche, vennero create a partire dal 1948 alcuni degli apparecchi fotografici più notevoli dell’epoca. Il primo fu la Hasselblad 1600F, seguito dal modello 1000F e poi dal modello 500c.
2 – C’è otturatore e otturatore
Il nome dei differenti modelli di macchia fotografica era lagato alla velocità massima dell’otturatore (un millesecentesimo di secondo, un duemillesimo e un cinquecentesimo, rispettivamente). La cosa apparentemente singolare è che la serie di numeri cresce, ha un picco, ma poi torna indietro. Da 1000 a 1600 e poi già a 500. Cos’era successo? A cambiare fu la tecnologia dell’otturatore. I primi due apparecchi avevano un otturatore a tendina nel corpo macchina, con obiettivi relativamente leggeri e pellicola medio formato 120, creato da Kodak nel 1896 (avete letto bene, 121 anni fa) e tutt’ora prodotto e distribuito, anche se in varietà sempre minori.
La serie 500 invece si caratterizzava per una differente tecnologia di scatto: otturatore non più nel corpo macchina bensì dentro ciascun obiettivo, realizzato nella metà ottica del barilotto e definito “obiettivo centrale” o “a foglia”. È un otturatore più lento nella velocità massima, rende più pesanti gli obiettivi e limitati nell’apertura (il diametro massimo dell’otturatore impedisce la costruzione di lenti particolarmente luminose) ma ha due vantaggi. Il primo è che permette di sincronizzare lo scatto con il flash a qualsiasi velocità, mentre gli obiettivi a tendina ancora oggi limitano lo scatto a determinate velocità (per via degli a effetti ottici del movimento della tendina), e soprattutto – secondo vantaggio – il meccanismo di scatto è molto piò affidabile essendo sigillato all’interno dell’obiettivo e quindi sottoposto a molte meno sollecitazioni e possibili noie meccaniche. Per esempio, non viene mai esposto alla polvere o in generale agli agenti atmosferici, neanche quando si cambia obiettivo.
Victor Hasselblad era un appassionato ornitologo e aveva concepito le sue macchine fotografiche come strumenti di precisione per il lavoro in studio ma anche come robusti carri armati da portare sul campo ad esempio per fare fotografia naturalistica. È quasi una ironia che il successo maggiore dei suoi apparecchi sia stato nel settore della moda e della pubblicità, dove il leggendario formato 6×6 della Hasselblad è diventato fino a pochissimi anni fa un riferimento assoluto, e quindi sempre in studio. Addirittura Valentina di Guido Crepax, che nella vita fittizia dei fumetti pubblicati negli anni Sessanta e Settanta fa la fotografa, utilizza spesso una Hasselblad, altre volte una Rolleiflex, alla fine anche qualcuna delle prime reflex Nikon-Canon.
Eppure la Hasselblad è stata un’ottima macchina da usare “sul campo”. Un esempio? Quello oramai “mitico” nelle missioni spaziali della Nasa. Tutto il finale del programma Mercury e poi tutto il programma Gemini e Apollo utilizzarono le Hasselblad per fare foto al pianeta Terra e poi agli uomini sulla Luna. Praticamente tutte le immagini spaziali di alta qualità che abbiamo in mente, dall’Apollo allo Skylab, da Armstrong che saltella sulla Luna agli Shuttle, sono scattate con le Hasselblad 500 EL/M (versione motorizzata speciale, con caricatori fino a 500 scatti). Se non è sul campo quello…
3 – La 500c
La serie 500 (oggi chiamata “serie V” in onore di Victor Hasselblad: la nomenclatura dei prodotti di quell’azienda è sempre stata molto semplice), il cui primo esemplare è stato il modello 500c come il mio, è nata nel 1957 ed è andata avanti sostanzialmente immutata per decenni, sino ai giorni nostri. La compatibilità delle varie componenti fra il 1957 e l’ultimo apparecchio prodotto fino all’aprile del 2013, la 503 CW, è totale. È un colpo di genio del design modulare: a guardare bene la macchina infatti non si capisce niente se non che è fatta a forma di scatola e che pesa un chilo e mezzo. Ma se si comincia a maneggiarla, emergono varie caratteristiche piuttosto uniche.
Il primo attributo della moduarità è che si stacca tutto. C’è il corpo centrale che è sostanzialmente un cubo con uno specchio che si muove (l’apparecchio è di tipo reflex) e permette di agganciare davanti un obiettivo con otturatore centrale, dietro un magazzino per la pellicola (o un dorso digitale, come vedremo la prossima volta), a destra una leva per la ricarica dell’otturatore e l’avanzamento della pellicola oltre che per riarmare lo specchio (e non solo: carica anche il magazzino posteriore e l’otturatore dell’obiettivo tramite un treno di ingranaggi piuttosto ingegnoso), a sinistra una slitta per accessori (da un mirino sportivo a una livella a spirito), sotto un aggancio rapido per treppiedi e sopra, oltre al vetro della messa a fuoco sostituibile, una vasta teoria di accessori: mirino a pozzetto, mirino con pentaprisma a 45 e 90 gradi, con o senza esposimetro, mirino di precisione a “ciminiera” con ingranditore regolabile.
La bellezza del meccanismo è che tutto è perfettamente incastrabile senza bisogno di particolari sistemi di serraggio. In realtà è tutto tecnicamente molto complicato da realizzare, ma è fatto con uno spirito tale che alla fine torna tutto, con precisione geometrica oltre che matematica. Il magazzino con la pellicola può essere staccato anche a metà rullo perché c’è una lastra di metallo (volée o, come dicono gli inglesi, “slider”) che impedisce all’emulsione di prendere luce. Questo vuol dire poter girare con due o tre magazzini con pellicole diverse: bianco e nero e colore, 100 ISO e 800 ISO, e cambiarli a seconda della bisogna.
Si può fare di più, però. Per dire: quando il magazzino è inserito ma la volée non è stata tolta, non è possibile scattare (non verrebbe fuori alcuna foto). Quando la volée è tolta non è possibile invece staccare il magazzino (la pellicola si rovinerebbe). Si possono fare anche le finezze: se si rimette la volée e si stacca il magazzino dal corpo macchina subito dopo lo scatto ma prima di caricare il corpo, si ricarica e quindi si riaggancia il magazzino togliendo la volée, si può fare una doppia esposizione, perché in questo caso la macchina consente di scattare una nuova immagine su quella precedente. Altrimenti, è impossibile che questo accada per errore.
4 – Letteralmente un “sistema”
La modularità, una sorta di Lego per la fotografia, ha permesso la nascita di un parco accessori davvero notevole e alle volte alquanto ingegnoso. Per dire, la leva di ricarica ha avuto anche un modello con incorporato l’esposimetro (al selenio, quindi senza alcuna batteria) prodotto dal colosso del settore Gossen. È lo stesso che ho anche io e che, a distanza di trent’anni dalla produzione, funziona più che bene. Se non piace, si sgancia in un attimo e se ne possono attaccare una mezza dozzina di altri varianti. Magari per trasformare quella della Gossen da esposimetro di luce riflessa a esposimetro di luce diretta semplicemente spostando una calotta opaca di duffusione della luce.
Il formato delle immagini, 6×6 ma anche 6×45 e 4×4, è leggendario così come leggendario è il rumore dello scatto, ka-klak, sempre riconoscibile e per niente silenzioso, verrebbe da dire. Però, bisogna capire che lo scatto rumoroso dipende dallo specchio, che si deve alzare, e dalle due serrande posteriori che si devono aprire per far passare la luce attraverso l’obiettivo e l’otturatore sino alla pellicola tesa nel magazzino. Solo facendo ka-klak l’otturatore centrale è libero di aprirsi e si scatta realmente una foto. Questo spiega anche perché, per scattare tempi più lunghi, è necessario tenere il pulsante di scatto pigiato per un po’, a rischio sennò di “chiudere” le serrande posteriori prima che l’esposizione sia terminata. Tra l’altro, sotto la manopola di carica c’è, molto mimetizzato, un pulsante per alzare e tenere alzato lo specchio che rende lo scatto molto più stabile (l’inerzia dello specchio che si alza fa vibrare il corpo macchina) e restituisce il solo, vero rumore dell’otturatore centrale: un lieve fruscio molto rapido e secco, difficilmente udibile anche a breve distanza. Più silenziosa di una Leica M.
5 – Street e travel photography
Non molti hanno usato la Hasselblad serie V come apparecchio da viaggio, senza treppiede, brandendo l’apparecchio a mano libera, perché nel medio formato la pesantezza del corpo macchina e degli obiettivi rende difficile essere molto stabili e le vibrazioni di specchio e otturatore sono alle volte micidiali per rendere meno netta una fotografia. Però è fattibile e fa anzi parte dei riti di iniziazione dei fotografi poter dire di essere andati a spasso con un corredo Hasselblad nello zaino, magari di venti e più chili, camminando per ore sotto il sole o la pioggia. Tra l’altro questa macchina è strutturalmente molto solida e, se si è capaci di impugnarla e brandeggiarla bene, è praticamente un carro armato. Con delle idiosincrasie tutte sue (ad esempio, il rischio di incastrare l’ingranaggio che passa la carica dal corpo all’obiettivo, con risultati alle volte molto pericolosi di grippaggio) ma con una affidabilità complessiva oramai divenuta proverbiale.
Il vero piunto di forza dell’azienda comunque erano e sono gli ormai mitici obiettivi prodotti dalla tedesca Carl Zeiss. Una leggenda vera e propria. Ne posseggo solo uno: il 50mm Distagon con apertura f4. Nel medio formato, con pellicola 6×6 (un quadrato di sei centimetri di lato, con una superficie tre volte più grande di quella del piccolo formato “full frame” 24×36), l’obiettivo “normale” è l’80mm (spettacolare il Planar di Zeiss per Hasselblat), mentre il 50mm equivale a un 28mm, ma con una geometria ottica e una luminosità molto differenti. Infatti – ma questo è un discorso che sconfina nell’ottica e rischia di farsi davvero complicato – l’inquadratura è quella equivalente circa a un 28mm sul piccolo formato ma la geometria delle lenti è quella effettivamente di un 80mm. Quindi, con vantaggi in termini ad esempio di pulizia geometrica dell’immagine inquadrata (gli obiettivi grandangolari tendono sempre a distorcere le immagini, sino ad arrivare agli effetti estremi degli obiettivi fish eye) ma con un problema di stabilità relativa.
6 – Due cose sugli obiettivi
Un obiettivo, quanto più è grandangolare tanto più ha una elevata profondità di campo e stabilità nel momento dello scatto. Invece, quanto più è tele e tanto più è (relativamente) corta la profondità di campo e suscettibile alle micro-vibrazioni nel momento dello scatto. Per questo quando si scatta con un grandangolo tendenzialmente viene tutto a fuoco e non c’è mosso. È uno dei due motivi per cui gli smartphone hanno obiettivi di questo tipo, l’altro è facilitare gli scatti ravvicinati di soggetti grandi oppure oppure in ambienti ristretti. Invece, il vantaggio dei tele medi (non superiori a 135mm), rispetto ai grandangoli, è che rendono meglio le proporzioni dei soggetti e hanno uno schiacciamento dell’immagine contenuto (i tele più spinti, 200mm e più, invece ammazzano la prospettiva), e per questo vengono molto usati per i ritratti. L’obiettivo “normale”, cioè che restituisce il campo visivo più o meno equivalente a quello dell’occhio umano, va bene un po’ per tutto, dal ritratto al panorama.
Una vecchia regola dei fotografi a pellicola voleva che si tenesse un tempo di scatto non inferiore alla lunghezza della focale: se per dire si utilizzava un obiettivo 50mm allora i tempi di scatto a mano libera per evitare il mosso dovevano essere almeon di 1/50 di secondo o più. Aggiungendo l’altra regola per fare le esposizioni corrette a occhio (cioè di tenere un tempo inverso rispetto agli ISO della pellicola: con ISO 100 mettere 1/100 o un valore vicino come 1/125, gestendo poi con l’apertura del diaframma la luminosità della scena) si ottiene la ricetta perfetta per gli scatti senza bisogno di alcun esposimetro. Nel medio formato la cosa è un po’ più complicata perché la lunghezza focale è espressa in valore assoluto ma noi la “pensiamo” applicata al piccolo formato 24×36: la geometria delle lenti non cambia ma sul medio formato (o sui formati inferiori al 24×36 come Aps-C e micro4/3 nel digitale) i risultati in termini di campo visivo sono molto diversi con un fattore di “crop” che ad esempio trasforma un 50mm in un tele sul micro4/3 (“equivale” a un 100mm) e, per l’appunto, in un grandangolo moderato sul medio formato (“equivale” circa a un 28mm).
Con la mia 500c e l’obiettivo 50mm Distagon (e per un periodo uno stupendo 120mm S-Planar che fa dei gran ritratti), faccio delle grandi foto su pellicola. Si lavora molto bene, le soddisfazioni sono tante, lo “zen” della pellicola è aumentato anche dal numero complessivo di scatti disponibili che nel medio formato molto limitato: un rullo 120 contiene 12 scatti nel formato 6×6, oppure 10 scatti nel formato 6×7, o 16 scatti nel formato 6×45 –ci vogliono persino magazzini diversi per cambiare proporzioni dello scatto e la cosa produce anche effetti differenti per quanto riguarda l’angolo visivo effettivo dello scatto e quindi il fattore di “crop”.
Adesso che siamo tutti allineati per quanto riguarda il funzionamento e le particolarità della Hasselblad serie 500, siamo pronti per parlare del suo uso in digitale. La prossima volta