Il meccanico della fotografia
Secondo alcune osservazioni dettate dal metodo del buon senso, ma abbastanza condivisibili anche dalle menti più quantitative, in questo periodo della nostra storia scriviamo e fotografiamo come mai prima.
Questo accade grazie al digitale e soprattutto agli smartphone: spediamo tantissimi messaggi (oltre alle mail) e scattiamo tantissime foto. La natura di questi due modi di comunicare è però molto diversa dal passato: i testi e le immagini che creiamo e spesso condividiamo sono effimeri, scompaiono subito o sono destinate a scomparire dopo poco almeno per quanto riguarda la nostra capacità di archiviarli e cercarli.
Concentriamoci sulla fotografia.
Negli ultimi anni è nato, forse anche per spontanea reazione a questa digitalizzazione pervasiva di tutto quanto, un diffuso movimento di amanti della fotografia analogica. Persone che utilizzano vecchie macchine fotografiche e soprattutto che usano la pellicola anziché le schede digitali come modo per fermare le immagini. Pellicola istantanea (simili alle Polaroid, o Fuji Instax) o pellicola tradizionale (che richiede cioè uno sviluppo e fissaggio, oltre a una stampa). Questa rinascita dell’analogico nell’ambito dell’immagine stata una sorpresa, che ha avuto spunti simili ma dinamiche ed effetti molto diversi rispetto a quelli dell’industria del vinile. Un altro settore cioè che ha visto una sua costante “tenuta” nonostante tutti lo dessero per condannato a inesorabile estinzione. Il vinile c’è, anche se ovviamente in piccolissime quantità rispetto al passato. E anche la pellicola c’è, ovviamente in quantità altrettanto ridotte.
Non voglio entrare nelle questioni che cercano di analizzare astrattamente la passione dell’analogico a scapito di quella per il digitale. Penso che ci siano oramai fiumi di inchiostro digitale e non versati sull’argomento. Si potrebbe infatti ragionare a lungo sul bisogno di ricreare intere poetiche dell’analogico, e delle immagini prodotte chimicamente anziché elettronicamente, neanche fossimo tutti sommelier che assaggiano vini rari e pregiati. Non è però quello di cui voglio parlare qui. Mi interessa di più invece affrontare l’argomento da un altro punto di vista, più pratico. Il mio. Perché sono appassionato di fotografia analogica, possibilmente in bianco e nero, e trovo che ci siano un po’ di cose da dire. Prendetela quindi come una prima educazione alla fotografia tradizionale del giovinetto nato in tempi digitali. Se interessa, ci sarà tempo e modo per un altro paio di puntate sull’argomento.
Propongo quindi di procedere per bozzetti. Perché tutte le cose umane sono fatte da uomini (e donne), anche se noi tendiamo a nasconderci dietro a oggetti, categorie e marchi. E questa volta l’uomo in questione si chiama Gigi Carminati, vive a Milano e fa il meccanico della fotografia. Gigi è della classe del 1940 e da più di 60 anni svolge lo stesso lavoro, cioè il riparatore di macchine fotografiche. Con anche una piccola attività di vendita a corredo, visto che in bottega c’è spazio per quell’usato che in questi decenni si è accumulato. Ma andiamo con ordine.
Gigi (mi permetto di chiamarlo pubblicamente così, ma è un amico) è un artigiano della riparazione fotografica: attraverso le sue mani sono passate la maggior parte di tutti i modelli di macchina analogica mai prodotti. Nato a Sesto San Giovanni, Gigi ha iniziato a lavorare nel 1954 a 14 anni, come si usava una volta, presso il mago delle riparazioni ottiche Mario Vitali. Nel 1955, dopo la morte di Vitali, passa alla Zeiss Italia con sede e laboratorio dietro il duomo di Milano. Nel 1961 è il momento del servizio militare (assolto nei carristi, i “cavalieri corazzati”) e poi il ritorno a Milano nel 1962 con l’apertura dell’attività di riparazioni fotografiche in via Paolo Lomazzo assieme a Sergio Saccani e al fratello Mario. Sergio è scomparso nel 1992 e Mario si è ritirato poco tempo dopo. La “Saccani e Carminati” è diventata “Carminati” e basta. E da lì non si è più mosso.
Sul banco da lavoro di Gigi sono stati “operati” esemplari di prestigio e di lusso così come macchine economiche e sconosciute o semi-sconosciute. È un lavoro artigianale perché Gigi (anche con i suoi soci) ha sempre lavorato al di fuori delle grandi e piccole case produttrici di apparecchi. Un lavoro, quello del riparatore (anche per le cose meccaniche delle attuali macchine digitali), che è stato anche osteggiato da parte delle suddette grandi case produttrici, che non hanno mai visto di buon occhio gente che offre una seconda e a volte anche una terza vita a prodotti rotti o usurati, candidati ideali per la sostituzione e l’acquisto con il nuovo.
Il lavoro del Gigi è da bottega artigianale e tale rimane: anche adesso che è in piena età da pensione (anche per i criteri più oscurantisti che i ministri del Lavoro di turno possano decidere) lui ha deciso di andare avanti: “Fino a che ci vedo bene e riesco a lavorare con le mani, mi piace. E fino a che, ovviamente, il lavoro mi paga l’affitto della bottega”.
La bottega del Gigi è un laboratorio che è veramente un piacere vedere. È a Milano in via Lomazzo 45 (tel. 02.315580), subito dopo il supermercato, di fronte a un odioso muro del pianto, cioè un gigantesco bunker di cemento armato privo di finestre, che è in realtà un parcheggio a vista sulla strada quota rappresentante la manica larga con la quale in passato venivano autorizzati i progetti di edilizia residenziale. Era lo spazio occupato dalla vecchia sede del Sole 24 Ore, prima che il giornale si trasferisse in via Monte Rosa. E per quello ho visto e conosciuto il Gigi, dato che ho lavorato per alcuni anni sia nella vecchia che nell’attuale sede.
La bottega di Gigi ha una sola luce, con in vetrina qualche rudere fotografico di tempi passati. All’entrata, il bancone di fronte, subito dietro il banco da lavoro e un altro tavolo, ai lati due vetrinette e scaffali in metallo. Dentro, il paradiso delle vecchie macchine fotografiche: dai banchi ottici alle vecchie medio formato, dalle 35 millimetri telemetro a quelle reflex. Con tutto quel che c’è nel mezzo. E poi, nascosti dietro il banco o dietro o sul soppalco, ci sono decine di scatole piene di pezzi e componenti, non solo per le riparazioni. C’è un accumulo ad esempio di tappi e coperchi, paraluci e tracolle che bastano per riempire eBay.
Tutte cose vecchie, il cui prezzo cambia rapidamente e continuamente sul mercato, ma dal quale il Gigi difficilmente si separa: i cartelli “Solo esposizione” abbondando, anche se poi, conoscendoci e parlando, Gigi tira fuori il suo vero volto di meccanico cortese e saggio, attento ed educato, proprio di altri tempi. E ti consiglia. Hai una vecchia Falco S, macchina folding prodotta dalla Ferrania (chi sa chi è Ferrania, senza bisogno di andare a guardare su Wikipedia, alzi la mano) con ottica 105mm realizzata dalle Officine Galileo di Firenze e formato di pellicola 120, cioè medio formato? Gigi è l’uomo giusto per fare tutto: verifica, pulizia, eventuale riparazione. Aiutarti a venderla se l’hai ma non la vuoi più, aiutarti a comprarla se non l’hai.
Stessa cosa se sei un benestante con Leica M3 d’annata e ottica Summicron 50mm dell’epoca. Oppure se, vinto dalla moda di Vivian Mayer, arrivi con una Rolleiflex 3.5F in cerca di attenzioni per poter tornare a scattare. E queste sono solo quelle che vedo io, perché mi interessano e ci faccio caso quando capito in bottega. Invece c’è poi tutto un mondo di altri apparecchi fatti in altri modi: dalle reflex giapponesi alle telemetro russe, dalle compatte di altri tempi ai veri e propri mostri come qualche Hasselblad 500 c/m e Mamiya 67.
E non si pensi che il laboratorio di Carminati non sia anche una bottega, perché è un vero e proprio negozio aperto sulla strada. Ve lo dico da fiorentino, che di botteghe dalle nostre parti ce ne intendiamo. Paolo Lomazzo è zona di poco passaggio, dai ritmi lenti (ma si potrebbe meglio dire: non stressati dalla furia che attanaglia sistematicamente le città del Nord), e zona buona, di confine tra la Chinatown di Paolo Sarpi (tre isolati più in là) e il quartiere del Buzzi, uno dei grandi ospedali per bambini di Milano, ma anche a un tiro di schioppo da Corso Sempione e due tiri di schioppo da Garibaldi (ci faccio caso dopo, rileggendo la bozza: certo che scrivere “due tiri di schioppo da Garibaldi” c’è dell’involontaria ironia).
Soprattutto, dentro il laboratorio del Gigi ci sono tanti personaggi che passano ogni giorno, dalle 8.30 del mattino alle 18.30, salva la pausa pranzo. Passano gli appassionati di fotografia da una vita che non trovano più negozi dove andare a far flanella (i commercianti blasonati di Milano sono tutti passati al digitale oppure vendono occhiali) a quelli che sono arrivati là per caso, perché glielo ha detto un amico o perché hanno trovato l’indirizzo su qualche rivista o sul sito internet (non del Gigi, che non ce l’ha, ma dei vari aggregatori del settore). Ci sono gli abitudinari, che vivono da quelle parti o che si fanno un punto d’onore nell’andare a trovare Gigi un giorno sì e l’altro anche, magari solo per fare il gusto della chiacchiera, o per cercare qualche ricambio sull’ultima macchina trovata dal rigattiere o dalla vedova di turno.
La fotografia analogica è scomparsa, come sappiamo, ma in realtà è rimasta nelle pieghe del nostro tempo. Viene ancora studiata, certo, da pattuglie di studenti delle scuole d’arte che si cimentano con lo scatto e con il fascino della camera oscura. Ragazze e ragazzi che imparano a catturare e poi a modellare le immagini e la luce con le proprie mani, pochi fogli e qualche reagente chimico.
Soprattutto, la fotografia analogica oggi viene praticata da gruppi di persone diverse. Alcuni sopravvissuti alla grande transizione; alcuni giapponesi sull’isola tropicale a cui forse nessuno ha detto mai che la guerra è finita; alcuni neofiti magari di quarant’anni che trovano nella pellicola quel qualcosa di genuino e di originale che il digitale non sa dare loro. Certo, il negozio del Gigi non è certo l’unico pezzo di analogico rimasto a Milano o in Italia. Ci sono una dozzina di altri posti dove si può andare per trovare pezzi, macchine intere o parzialmente intere, pellicole di varie marche e gradazioni, servizi di sviluppo e di stampa. Ad, esempio, dentro Milano ci sono un paio di posti veramente buoni dove si possono sviluppare e stampare le pellicole in bianco e nero, mentre per il colore diventa un po’ più complesso perché lo sviluppo viene fatto ma la stampa passa attraverso la digitalizzazione (con scanner a tamburo dai costi proibitivi) e l’uso di una stampante a getto d’inchiostro di altissima qualità su carta di qualità. Altra cosa rispetto a quel che può fare un privato, ma anche un’altra cosa rispetto a quello che si poteva fare una volta con la stampa analogica a colori su carta sensibile.
Una nota per i non addetti: sia lo sviluppo che la stampa delle pellicole in bianco e nero o a colori sono attività molto differenti, richiedono agenti chimici diversi, tempi diversi e un diverso sistema di stampa (il colore prevede una testata con tre lampade di colori diversi o almeno con tre filtri colore per la luce). E, mentre il bianco e nero si può imparare a fare a casa, oltretutto con un certo risparmio (il costo di uno sviluppo è sui 5–6 euro a rullo, la stampa cambia a seconda della qualità della carta e della dimensione dell’ingrandimento, i rullini costano da 3 ai 10 euro), il colore è veramente ostico e sostanzialmente è meglio lasciarlo ai negozi.
Torniamo al Gigi e alla sua bottega. Negli ultimi anni sono diventato un affezionato del suo antro, di quello spazio che vedo come una “man cave” per appassionati di fotografia analogica. E anche una scuola per imparare: nonostante sia un fruitore su larga scala delle tecnologie digitali e di Internet, sostengo anche che si impara guardando e soprattutto toccando. Quindi, quale posto migliore per esplorare le differenti epoche della fotografia e approcci meccanici agli strumenti di scatto che un negozio che è un cantiere aperto, un’officina dove si lavora seriamente e con precisione, ma nei tempi giusti e con rispetto? Ho imparato da meccanici come Gigi a smontare e rimontare motori a due e quattro tempi, intere Vespe persino, e dietro c’è un approccio e una filosofia del lavoro e un’estetica dell’oggetto che sono tutt’altro che scontate. Meccanica di precisione, per tanti versi più simile all’orologeria che non alla meccanica del trasporto.
La cosa divertente per me è anche il fatto che il Gigi è affabile e accondiscendente con i novizi come me e le decine di altri ragazzi e ragazze che ho visto passare dal suo laboratorio per riparare qualche vecchia Canon o Nikon meccanica oppure per cercare qualche occasione. Gigi valuta, ripara, suggerisce, propone. È un signore di altri tempi: competente e onesto. Non ha interesse a vendere perché rimane un riparatore nell’anima, e quando vende, se capita, si fanno sempre ottimi affari perché c’è la garanzia (e l’orgoglio) del riparatore che l’oggetto comprato funzionerà. In caso contrario, quale migliore garanzia che fare il lavoro in casa? Gigi compra anche, ovviamente, soprattutto quando la moglie o i figli di qualche vecchio cliente vengono a portare tristemente il corredo fotografico passione del compianto proprietario. Fa parte della vita e in sessant’anni di professione capita neanche tanto raramente.
Un annetto fa mi diceva che da qualche tempo il lavoro è ripreso con un certo impeto. Anzi, quasi preoccupante, da dover rifiutare spesso qualcosa. C’è poco rispetto ai tempi d’oro, ma insospettabilmente di più. Nessuno se lo aspettava, però sta accadendo nonostante i grandi produttori di chimici stiano ad esempio dismettendo una emulsione dopo l’altra. Un aneddoto al riguardo: quando l’americana Polaroid è finita “pancia all’aria” ed è stata comprata da Petters Group Worldwide, i nuovi padroni – alquanto poco esperti di industria ma abbastanza ferrati sui fondamentali della finanza e dell’economia d’impresa – hanno deciso che la produzione di pellicole istantanee fosse antieconomica e hanno ordinato di smantellare i giganteschi impianti americani (tre fabbriche, 450 operai) dove venivano prodotte le varie tipologie di pellicola istantanea. Scelta efferata e delittuosa, perché pochi mesi dopo l’annuncio della fine della produzione delle Polaroid classiche (era il febbraio 2008, gli ultimi lotti di “integral film” sono naturalmente scaduti nel 2009) è partita una corsa all’acquisto che non si è più fermata. Tanto che, sulle ceneri delle pellicole Polaroid è nata l’avventura della Impossibile Project (che ha recentemente anche prodotto una macchina costosa fotografica simil-Polaroid, la I–1).
Se il film istantaneo non è morto (ma fa tanta fatica) quello tradizionale a rullini o a rulli (nei due formati ancora prodotti: 135 e 120) ha visto fortemente ridurre le emulsioni disponibili ma viene tutt’ora prodotto in quantità sufficienti per alimentare il mercato degli appassionati. Il problema casomai sono gli apparecchi fotografici.
Infatti, le macchine fotografiche analogiche non sono più in produzione con un paio di vistose eccezioni (Leica produce ancora tre modelli della serie M a pellicola “nuove”, commercializzate a prezzi davvero ragguardevoli: sono la M-A typ 127, la MP e la “vecchia” M7) e quindi il mercato è per definizione destinato a morire man mano che le vecchie macchine scompaiono perché diventano non più operabili né riparabili. Qui entrano in gioco gli uomini come il nostro Gigi, che non solo le riparano, ma come ogni bravo artigiano sono in grado di risolvere la maggior parte dei problemi che si pongono quando non esistono più pezzi di ricambio ufficiali.
Alcune, anzi molte cose non possono più essere riparate. Bisogna fare una distinzione: meno elettronica c’è dentro una macchina fotografica e più è facile che possa essere pulita e rimessa in circolazione, salvo un problema. Per una macchina fotografica completamente meccanica l’unico vero punto debole sono le ottiche: se non sono danneggiate da graffi, dalla perdita del rivestimento antiriflesso o dalla terribile malattia chiamata “fungo”, che è poi una degenerazione della colla organica (balsamo del Canadà, come lo chiamano in Italia) utilizzate per tenere assieme nei vari gruppi le lenti, allora è probabile che tutte le altre parti possano essere più o meno facilmente riparate.
Per molti apparecchi non vale la pena fare una riparazione: si possono tenere per essere cannibalizzati allo scopo di ripararne altre con altri tipi di guasti oppure cercare direttamente un sostituto. Perché c’è un mercato di macchine fotografiche sufficientemente ampio nonostante tutto (enorme ieri, molto piccolo e agguerrito oggi) e ci sono per fortuna ancora dei riparatori, come Gigi, che possono fare la differenza avendone la capacità e l’esperienza. Per me è una bella scoperta.
Per leggere qualcosa di meglio e di più su Gigi, c’è questo articolo di Graffio (lui a sua volta autentica istituzione e miniera d’oro di aneddoti sul milanese) che vale davvero la pena.