Promesse da Alitalia
Grandi e piccole cose. Alitalia è la compagnia di bandiera italiana, anche se in questo momento non ha più formalmente nessuna partecipazione statale diretta e i suoi proprietari (privati, banche e Poste italiane al 51%, la compagnia di Abu Dhabi, Etihad, per il restante 49%). Però non ce ne sono altre che possano occupare lo stesso spazio simbolico quindi va benissimo considerarla anche informalmente il “vettore ufficiale” del nostro paese. Il nostro ambasciatore. Il ponte costruito attraverso il cielo per portare “noi” verso il mondo e il mondo verso casa nostra.
Negli anni Alitalia è stata molte cose. Una piccola compagnia nata dalle ceneri della seconda guerra mondiale tramite una serie di fusioni benedette con l’aiuto dei vettori commerciali degli alleati, una compagnia crescente simbolo della ricostruzione e poi dell’Italian style negli anni Settanta, un carrozzone di lusso, pieno di debiti e sempre più sull’orlo del fallimento andando avanti. È diventata sinonimo delle regalie e dei privilegi della “casta”, con storie fantasmagoriche su piloti e personale di bordo, ovviamente tutti raccomandati e rigorosamente romani, che praticamente avrebbero lavorato sei ore e poi si sarebbero riposati per sei giorni. Anche in un forum di osservatori delle scie chimiche verrebbero sollevati ragionevoli dubbi, eppure l’immagine complessiva passata negli ultimi anni è stata questa.
Tartare tricolore
Alitalia in realtà è stata tritata per quasi due decenni dalla violentissima trasformazione del mercato del trasporto aereo civile, che sull’onda della deregulation reaganiana ha fatto vittime molto più eccellenti (Pan Am e TWA in momenti diversi, per dire) e ha cambiato le regole del gioco per sempre. Nel mezzo ci sono stati gli shock petroliferi e varie guerre attorno ai pozzi mediorientali (la spesa operativa principale per un vettore aereo è il carburante, tanto che Delta Air Lines, a un certo punto, si è comprata una raffineria, per dire) che hanno trasformato ancora di più gli economics (come dicono quelli che hanno fatto la Bocconi) delle aziende del settore. Gli accordi sui “cieli aperti” sono stati il viatico per la creazione delle compagnie low cost (prima negli Usa, poi in Europa e adesso in Asia, seguendo le ondate di uniformizzazione delle legislazioni dei paesi di una specifica regione come la Ue o il Sud-Est asiatico).
E poi Santa Internet, che tanto amiamo perché consente di fare di tutto e meglio, ha dato la mazzata finale: il modello low cost già c’era ma la rete ha amplificato il fenomeno disintermediando definitivamente il rapporto tra clienti e vettori. È stata la morte per tre agenzie di viaggi su quattro, il cui saldo negativo complessivo è superiore a quello dei dipendenti per esempio dell’attuale Alitalia, ma siccome sono piccoli e sparpagliati nessuno se ne accorge (come nessuno si accorge che, prima dei giornalisti in cassa integrazione negli ultimi anni in Italia sono saltate due edicole su cinque, con perdite di altre migliaia di posti di lavoro).
Alitalia in tutto questo ha fatto un sacco di debiti, è stata “salvata” un paio di volte dallo Stato italiano (in ultima analisi, dai suoi contribuenti), è andata vicino alla fusione con KLM (che ha preferito letteralmente fallire, pagando la penale per la mancata fusione, e poi finire comprata da Air France), è andata vicino alla fusione con Air France, è stata spezzettata, “sgrassata” di dipendenti, società collegate e dio solo sa di quant’altro, ha stretto accordi a lei sfavorevoli (come quello sempre con Air France) passando per le mani di uno squadrone di cavalieri bianchi la cui capacità di far ripartire il vettore oggi è sotto gli occhi di tutti. E poi?
Sembrava un dramma senza fine, un accanimento terapeutico a spese degli italiani, che poteva terminare solo con l’eutanasia o una fucilata. Invece si è trasformato. Grazie all’entrata di un nuovo pacchetto di azionisti (Etihad) che portano con loro know how, interessi operativi diversi e la determinazione di far fruttare il loro investimento. E soprattutto di un nuovo gruppo di dirigenti: perché non è stato il personale Alitalia a far andare male l’azienda, ma gli ammiragli che comandavano la flotta. Sarebbe altrimenti come dare la colpa ai soldati francesi per la sconfitta di Napoleone a Waterloo. Certo, quando si vince è tutta la squadra a vincere. Ma la responsabilità di chi guida, e quindi prende le decisioni strategiche, è proprio quella di andare al fallimento se non riesce a muoversi come dovrebbe.
Con calma, quasi ci siamo
Lunga, lunghissima premessa (vi mancavano le mie lunghe, lunghissime premesse, dite la verità) per dire che ieri Alitalia ha messo in un hangar storico di Fiumicino (quello dove stavano i 21 Boeing 747 di Alitalia dal 1970 sino al 2002, quando I-DEMN “Porto Cervo” è uscito di scena l’11 giugno, dopo l’ultimo volo di rientro da Tokyo) un nuovo aereo fantastico. E per motivi che adesso provo a raccontarvi brevemente con una premessa. L’idea di Alitalia è stata quella di fare una convention divisa in tre atti: mattina con qualche centinaio di dipendenti, pranzo con qualche centinaio di giornalisti da tutto il mondo, cena con VIP, clienti speciali e azionisti. Obiettivo: presentazione della nuova livrea (i colori dipinti sull’aereo, che sono stati confusi dai giornalisti presenti nell’ordine per: allestimenti interni, divise del personale, logo aziendale, cani da caccia), di un nuovo apparecchio e dei suoi nuovi allestimenti interni (sedie, poltrone e sistemi di intrattenimento, ma anche struttura e tipologia di servizio in cabina) oltre a richiamare l’attenzione su alcune nuove rotte e sui fondamentali del piano di rilancio a tre anni dell’azienda.
Sono cose parzialmente nuove: nel 2016 l’azienda vuole andare in pareggio e nel 2017 tornare in utile, sta aprendo nuove rotte come Shanghai e anche Abu Dhabi con doppio volo giornaliero da Roma e Milano, farà di Malpensa un hub cargo, farà voli per Abu Dhabi da Bologna, Venezia (già partito quest’ultimo) e Catania. Seul è appena iniziato, Pechino, Città del Messico, Santiago del Cile e (nel 2018) San Francisco sono i nuovi diretti ai quali l’azienda lavora con Etihad, che sfrutterà il suo super-hub mediorientale per indirizzare passeggeri da e verso gli aeroporti italiani.
In sintesi (c’erano a parlare il Ceo di Alitalia, Silvano Cassano, il Ceo di Etihad James Hogan, il presidente di Alitalia Luca Cordero di Montezemolo e poi la presentatrice, Ilaria D’Amico) l’idea è che l’azienda possa riorganizzarsi, diventare più efficiente, far funzionare meglio la sua flotta del lungo raggio (+32% incremento nell’uso) e medio raggio (+13%), sfruttare la flessibilità che c’è nell’avere dietro le proprie spalle una “grande famiglia” che ha già investito 1,76 miliardi in Alitalia e ha un portafoglio di aerei senza fine. La ricapitalizzazione permette di fare tante cose: nuove rotte, diverse frequenze, nuovi prodotti, nuovi servizi, rivitalizzazione del brand, crescita di cultura aziendale (quella di Alitalia è orientata al “customer first”) e sinergia con il brand Italia. Questo è interessante perché pensare di superare la retorica dell’Alitalia come “ambasciatore” del nostro Paese e cercare di trasformarlo in veicolo sinergico di promozione del brand Italia attraverso una politica intelligente e scientifica di individuazione di partnership con i campioni del Made in Italy mi pare molto interessanti. Se non altro, è spiegata meglio, poi vediamo come la fanno.
Il Ceo Cassano ha detto cose giuste: «Siamo un’azienda che non vuole avere alibi: nulla chiede, nulla regala, non si lamenta, sta sul mercato ed esige regole certe perché è così che si compete con i migliori al mondo e, se si vale di più, si vince». Vediamo se, oltre a dirlo, avrà la capacità di farlo (dopo la presentazione sono andato a stringergli la mano e augurargli un “in bocca al lupo” che secondo me ci sta tutto). Le ha dette anche il Ceo di Etihad, Hogan: «Arriveremo al successo grazie alla gente che lavora in Alitalia: hanno sempre saputo cosa fare e farlo bene, ora finalmente ci sono anche il supporto, la leadership e gli investimenti per farlo». E le ha dette anche il Presidente Montezemolo: «Portiamo Alitalia ad avere le quote di mercato che ci meritiamo. Abbiamo la struttura finanziaria e gli investimenti nella flotta necessari: dobbiamo meritarci la fiducia dei nostri clienti».
Artemisia Gentileschi
Ok, fin qui la cronaca. Quando dicevo dell’aereo, non scherzavo. Un po’ perché mi piace entrare in un hangar e passeggiare sotto un wide-body, un po’ perché quello che è successo è davvero interessante. Alitalia ora spenderà 350 milioni di euro per rimettere a regime la sua flotta, partendo dai primi due aerei con la nuova livrea e i nuovi allestimenti: WiFi e pico-celle per cellulari a bordo (stessa dotazione Etihad) grazie a Panasonic che ha fornito comunque gli allestimenti tecnologici di tutti i sistemi di intrattenimento di bordo (Panasonic ha circa l’85% del mercato dell’Inflight Entertainment) con la piattaforma tecnologica più stabile e moderna che possiedono. Nuovi allestimenti interni con Poltrona Frau, con nuovo schema di colori, nuove cose da mangiare (di migliore qualità) servite con una nuova strategia di servizio (dallo spuntino alla possibilità di mangiare in qualsiasi momento, piatti cotti sul momento, nuovi e migliori vini e via dicendo).
Un po’ però anche per l’aereo e per come viene fuori. Bella la livrea? Sì, anche se non è un cambiamento epocale come schema di colori. Molto meglio del ridicolo, inutile (e costoso) aggiornamento fatto da CAI qualche anno fa nel 2005 (poco prima dell’era Cai che inizia invece nel 2009), ma all’esterno il nuovo schema non è una rivoluzione. Per dire, la casa madre Etihad ha fatto di recente molto di più e in modo molto più rumoroso. Ma è il problema, lo capisco, di gestire una tradizione molto lunga e radicata nel tricolore e nella forma ad “A” della pinna di coda dell’aereo, che è un po’ l’orizzonte semantico invalicabile della nostra compagnia aera che si sente tanto, come dicevo al principio, vettore “di bandiera”. Tutta l’immagine coordinata di Alitalia, fino alle spille e ai fermacravatta, è giocata su questa idea della pinna di coda tricolore fatta a forma di “A”. Chi vorrà mai prendersi la responsabilità di uscire da questo concetto?
Invece, il nuovo aereo, un A330-200, ha due cose belle. La prima è che ha un dolce nome di donna: Artemisia Gentileschi. Appropriato perché figura ricca e complessa: pittrice romana tardo-rinascimentale di gusto caravaggesco ma anche simbolo del movimento femminista internazionale di forza e determinazione per il processo per stupro che intentò ai suoi violatori. È una figura di donna dalla vita travagliata che ha perseguito e raggiunto i suoi obiettivi superando ostacoli che hanno piegato a molte e a molti prima di lei. La forza, la passione, la determinazione, il talento artistico e la vita consacrata al suo massimo fiorire. Mi piace che l’aereo del “ritorno” di Alitalia si chiami come lei.
E poi mi piace anche che la sua matricola, I-EJGA, abbia solo la “I” e non la “EI” con la quale CAI aveva re-immatricolato tutti gli aerei della flotta. Perché la differenza è sostanziale. L’Artemisia Gentileschi è in leasing da Etihad, ovviamente, non è di proprietà italiana. Ma è immatricolato in Italia (da cui la “I”). Invece, CAI aveva alienato tutta la flotta mettendola in mano a uno o più fornitori di aerei in leasing (delle specie di società all’ingrosso che fanno da fornitori), i quali avevano immatricolato gli aerei in Irlanda (“EI”). Perché? Secondo me, ma è una mia idea, perché così in caso di fallimento “improvviso” dell’azienda i fornitori avrebbero mandato una squadraccia di piloti nottetempo per riportare tutti gli aerei in Irlanda, togliendoli fisicamente dalla disponibilità dei tribunali fallimentari italiani e non rischiando di rimanere impastoiati in lunghe procedure legali. È una mia idea, ripeto, ma il senso che evoca non mi è mai piaciuto: nelle mie moleskine dove mi segno i miei voli ho alcuni anni di tratte operate da Alitalia come vettore ma con apparecchi che sapevano poco d’Italia.
Ora mi sembra che l’aria sia cambiata.
Le promesse da mantenere
Anche la comunicazione pubblicitaria della nuova Alitalia mi piace: le promesse di una serie di dipendenti, scritte di loro pugno, che sottolineano chi sono e perché fanno il loro lavoro quelli che ci lavorano, e cosa promettono ai clienti. È una buona idea, in pubblicità fa molto “americano” (sono scritte e firmate a mano sopra la foto del dipendente) e sono sostanzialmente un meccanismo di apertura di credito che serve a creare identità di brand. Bello.
Alitalia in cinque mesi ha messo sul tavolo molte delle sue carte. Ne rimangono tante altre sospese. Il potenziamento della flotta, la riorganizzazione del personale (quest’anno vengono riassunte 300 persone tra quelle licenziate a suo tempo), la rimodulazione della strategia. I piani di espansione hanno senso: l’idea di avere un partner “diverso” (Etihad ha un profilo proprio diverso come compagnia aerea), ricco e lontano risuona di più che non quella di avere un partner vicino, simile e in difficoltà come Air France-KLM. Il rischio di finire cannibalizzati e trasformarsi in un vettore regionale era più forte con loro che con gli arabi. Cosa succede adesso? Alitalia si è data delle priorità: Stati Uniti, Asia, America Latina. Devo dire che sono preoccupato perché Alitalia non dice mai una parola sull’Africa, terra gigantesca (è un continente dopotutto) nel quale Alitalia ha sempre avuto molto più che un piede. La vocazione di Roma come hub mediterraneo è stata messa in secondo piano dalla crisi e sicuramente anche dalle devastanti primavere arabe. Però dimenticarsi l’Africa mediterranea e quella sub-sahariana è un grande, grandissimo errore. Tuttavia, ammetto che in prima battuta la strategia debba puntare su quel che c’è da fare prima, e oggi passeggeri e soldi viaggiano verso gli Usa, verso la Cina e verso la Corea (perché no).
Le cose che Alitalia sta facendo sono tanto lavoro e tante promesse. C’è un pragmatismo che per la prima volta fa ben sperare, ma questa non è necessariamente la premessa di un successo. Se la logica è quella della competizione “senza chiedere niente se non il rispetto delle regole, per vedere chi è il migliore”, si potrebbe anche scoprire di non essere i migliori. E perdere.
Però, lasciatemelo dire proprio pensando all’A330 battezzato Artemisia Gentileschi: se non si ha il coraggio delle proprie ambizioni e non si lavora alla realizzazione dei propri sogni, allora tanto vale starsene a casa. Mi pare che il senso di quello che è successo a Fiumicino nell’hangar storico dei giganti dell’aria sia questo: il coraggio di fare una promessa. Adesso vediamo se ci sono anche le capacità per mantenerla oppure se anche a questo giro sono tutti chiacchiere e distintivo.
Io sono preso più che bene e mi sono già messo all’opera: annuncio qui ufficialmente che nella mia officina di eBook (dove stanno già fiorendo i titoli su fotografia, Apple e altro), arriverà tra poche settimane una piccola monografia su Alitalia alla quale seguiranno altre cose entro l’estate. Ecco, l’ho detto. Voi monitorate per adesso Antonio Dini 40K, altre cose seguiranno.