Gli altri produttori di aerei – parte seconda
Riprendiamo la suddivisione dell’altra volta. Avevamo messo il punto attorno a tre categorie di aerei di linea: i “large jet” sono aeromobili di capacità maggiore di cento posti e di raggio di azione superiore ai mille chilometri. I “regional jet” sono velivoli con capacità inferiore ai cento passeggeri e raggio di azione inferiore ai 1200 chilometri. I “turbo prop” con capacità di trasporto e raggio d’azione analogo ai “regional jet” ma con propulsione a turbo elica.
La suddivisione è corretta ma lascia un po’ di spazio per operare di cesello anche nella parte “large jet”. Possiamo infatti distinguere, in questa porzione del mercato, tre segmenti: i “single-aisle”, cioè gli aerei con 100-200 posti che hanno un solo corridoio centrale in cabina e due file di poltrone (A320 e B737 ad esempio, ma anche il “vecchio” B757); i “twin-aisle”, cioè quelli con 200-400 posti e due corridoi per tre file di poltrone (i Boeing 767 o gli Airbus A330); e la categoria “747 and larger” che poi sarebbero gli “heavy metal”, quelli con più di 400 posti. Ci sono il Boeing 747, l’A340, l’A380.
Per completezza, alla base della classificazione bisogna aggiungere anche la categoria dei “business jets”, che poi sono quelli venduti a privati non per volo di linea: i jet executive delle aziende, dei personaggi molto ricchi, gli aerotaxi e via dicendo. Contano perché vengono comunque prodotti dai “soliti noti” e vengono operati alle quote dei voli di linea.
Come avrete capito, questa nel suo complesso è una divisione abbastanza arbitraria. Non c’è una legge che obbliga a costruire un aereo twin-aisle con più o meno di 400 passeggeri come capacità. Alcuni, addirittura, sono costruiti a cavallo delle classificazioni. È il caso del “vecchio” Boeing 777 e del nuovo A350, che stanno nella parte alta del segmento dei “twin aisle” ma si avvicinano per capacità alla zona degli “heavy metal”. Dipende dalle varianti. La classificazione non prende in considerazione poi né il numero di motori (gli aerei di linea hanno due, quattro o tre motori, anche se velivoli di quest’ultimo tipo non vengono più prodotti; il numero dei motori impatta notevolmente gli ambiti operativi e le normative di sicurezza per i voli oceanici ETOPS) né l’autonomia. Quest’ultimo parametro è in realtà il più illusorio. Perché lo stesso tipo di aereo, ad esempio un Boeing 777, può essere attrezzato per andare molto lontano oppure per trasportare un mix di passeggeri e cargo molto elevati.
La novità più elegante da questo punto di vista è il nuovo Boeing 787, giunto oramai al traguardo dei primi cento esemplari prodotti. Il Dreamliner, che Boeing ha “spinto” moltissimo, è un aereo “twin aisle” relativamente piccolo e costoso – tra i 210 e i 290 milioni di dollari di listino a seconda delle versioni – costato circa 32 miliardi di dollari per la progettazione, e capace di portare fino a 296 passeggeri per un massimo di 15mila chilometri, cioè arriverebbe da Malpensa (MXP) all’aeroporto di Port Moresby (POM) in Papua Nuova Guinea. Basterebbe un altro migliaio di chilometri e potrebbe arrivare a Sydney (SYD).
Chiarito questo aspetto, vediamo un po’ cosa sta succedendo. Lo scenario, accennavo nel capitolo precedente, si è rapidamente modificato negli ultimi cinque anni. Sono ritornati alcuni vecchi attori e ne sono emersi di nuovi.
I vettori sono tre: il Giappone, che cerca di rientrare sul mercato aeronautico civile, dove non ha più giocato un ruolo sensibile dalla fine della Seconda guerra mondiale; la Russia, che vuole ripartire con una nuova generazione di velivoli più moderni e trovare una nuova collocazione sia per il mercato interno che per quello internazionale; la Cina, che è destinata ad assorbire una parte consistente della domanda mondiale di aeroplani e non ci sta a diventare terreno di conquista.
Partiamo con il Giappone. Sono le Mitsubishi Heavy Industries, tramite la controllata Mitsubishi Aircraft Corp. con sede a Nagoya, a produrre aeroplani. Anzi, a lanciarne uno: un regional jet da 70/90 posti lungo 35,8 metri che farà il suo primo volo nel 2015 ed entrerà in commercio nel 2017. Si chiama MRJ (Mitsubishi Regional Jet) e dovrebbe avere un costo di listino di circa 40 milioni di dollari per esemplare. Ci sono già 165 ordini sulla carta, prevalentemente da aziende americane (Trans State Holdings che alimenta le aerolinee regionali americane Compass Airlines, GoJet Airlines e Trans States Airlines, e SkyWest, che alimenta le regionali americane SkyWest Airlines ed ExpressJet) e giapponesi (ANA). Il prodotto giapponese è pensato proprio per queste piccole compagnie aeree: è un “feeder” puro, cioè un aereo di piccole dimensioni che serve a portare passeggeri (“alimentare”) dai piccoli aeroporti di provincia verso i grandi hub dove poi i grandi jet portano la gente da uno snodo all’altro.
La concezione di “hub and spoke” (mozzo e raggi) è il modello del trasporto aereo che è diventato prevalente a partire dagli anni Settanta con l’introduzione dei jet di classe pari o superiori al Boeing 747. È la base dell’idea di trasporto di massa, anche se viene molto spesso operata con velivoli di dimensioni minori (un classico trasporto per lungo raggio è il Boeing B767, che porta da 180 a 370 passeggeri).
Il modello contrapposto a quello dello “hub and spoke” è quello “point to point”, in cui gli spostamenti avvengono utilizzando aerei più piccoli con una frequenza maggiore attraverso aeroporti di dimensioni medie. Questo è lo scenario pensato per i voli di lungo raggio con il Boeing 787, a cui Airbus risponde con il prossimo A350. Invece il “colosso” A380 è il nuovo campione, dopo il B747, del modello “hub and spoke”. Per riempire un A380 lo scalo di armamento della compagnia riceve feeder da un intero continente o quasi. Invece, il B787 per i voli anche intercontinentali sostanzialmente si serve sul bacino dell’aeroporto o poco più.
Gli aerei come il giapponese MRJ hanno la possibilità di operare come feeder, ma sono anche flessibili e pensati per zone in cui c’è alta densità di popolazione. Lo scenario è quello del Giappone, che ha una orografia complessa (simile peraltro all’Italia, Alpi e Appennini compresi) e dove c’è un sistema ferroviario estremamente veloce ed efficiente. In questo contesto, avere tanti piccoli aeroporti serviti da piccoli aerei che permettono di “saltare” rapidamente da un capo all’altro del paese, con voli al massimo di un’ora, è una alternativa valida alle altre forme di trasporto (auto e treno).
Le compagnie low cost seguono un approccio simile, cioè una rete di collegamenti punto-a-punto, tra aeroporti secondari con costi molto bassi, e senza i vincoli di dover strutturare una rete di coincidenze tra voli, che vincola pesantemente la possibilità di effettuare modifiche, riprogrammazioni e soprattutto cancellazioni dei voli.
I giapponesi stanno quindi partendo nella direzione che reputano più sensata e conveniente. Il mercato dei trasporti regionali per i produttori è dopotutto quello più semplice, con costi di entrata relativamente più bassi e con margini di crescita maggiori rispetto a quello dei grandi “large jet”.
Un pensiero analogo è non a caso venuto anche ai russi. Anzi, a Sukhoi, uno dei produttori storici di aerei dell’Unione Sovietica (1939), tramite la controllata Komsomolsk-on-Amur Aircraft Production Association, in breve KnAAPO, nata nel 1927. Sukhoi per il progetto del Sukhoi Superjet 100 collabora con Boeing e anche con Alenia Aermacchi (Finmeccanica) che ha fatto una partecipazione di capitali con l’obiettivo di curare la distribuzione dei velivoli in Europa e nel resto del mondo (SuperJet International).
C’è ovviamente una lunga lista di partner, perché la modalità di “sourcing” per la produzione delle moderne piattaforme di volo è basata sulla globalizzazione totale del mercato: i System Integrator (OEM: Original Equipment Manufacturer) hanno decine di migliaia di fornitori e curano solo l’assemblaggio finale degli aerei. Basti pensare che Airbus ha circa 1500 fornitori da 27 paesi per capire quanto sia complessa l’attività di realizzazione di oggetti che hanno tra i quattro e i sei milioni di pezzi.
I motori del Superjet 100 vengono invece prodotti con una joint-venture franco-russa chiamata PowerJet, che realizza i motori SaM146. Il settore della motoristica è un mondo a sé stante, con una mezza dozzina di attori di lato livello che spesso operano insieme. In questo caso a collaborare sono la francese Snecma e la russa NPO Saturn. Snecma, sussidiaria di Safran, è nata nel 1945; il nome è una sigla piuttosto semplice (Société nationale d’études et de construction de moteurs d’aviation) e l’azienda – che ha un giro d’affari da 4,2 miliardi di euro e più di dodicimila dipendenti – ha due filoni di business principali. Da un lato i motori per jet militari, che la Francia produce sia in collaborazione con altri che da sola, dall’altro le joint venture per l’aviazione civile. La più importante delle quali è CFM International in collaborazione con l’americana GE Aviation. Il frutto più grosso e succoso è il motore CFM56, che equipaggia quasi cinquemila tra A320 e Boeing 737 oltre a un buon numero di “vecchi” DC-8-70 della McDonnel Douglas e che è nato nel 1974. Come terza attività Snecma produce anche i motori dei vettori e dei lanciatori di satelliti artificiali, come Viking e Vulcain.
I Sukhoi Superjet 100 sono in commercio dal 2011: finora ne sono stati piazzati una quarantina, costano circa 35 milioni di dollari di listino e il programma per la realizzazione della piattaforma è costato in tutto poco meno di 1,5 miliardi di dollari. Le quattro varianti principali portano tra i 70 e i 100 passeggeri per una distanza compresa tra i 2900 e i 4500 chilometri. L’evoluzione già sul tavolo dei progettisti sarà il Sukhoi Superket 130 con una capacità compresa tra 130 e 145 passeggeri. Comunque, il Superjet 100, che non sta facendo benissimo, ha anche scelto un segmento davvero complesso.
La competizione in quest’area del mercato infatti è molto densa. Abbiamo detto che ci sono gli A320 (in realtà la fascia è, per la precisione, quella dell’A318), i Bombardier con i CSeries e i CRJ700, gli Embraer con gli E-Jets, il Mitsubishi Mitsubishi MRJ (nelle due varianti MRK 70 – MRJ 90) e i Boeing 737-600. In Russia ci sarebbe stato anche il Tu-334 della Tupolev, progetto del 1999 abbandonato pochi anni dopo e soprattutto l’An-148 di Antonov, progettato dall’azienda di stato ucraina fondata nel 1949, che al costo di 18-25 milioni di dollari (per un programma che è costato circa 400 milioni di dollari) dal 2009 è in grado di portare 70-100 passeggeri per distanze comprese tra i 2100 e i 4400 chilometri (la versione da 100 passeggeri con la fusoliera allungata si chiama Antonov An-158).
A competere nella fascia superiore a quella dei Sukhoi Superjet 100 c’è invece l’Irkut MS-21, capacità di 150-212 passeggeri, realizzato da Irkut e Yakovlev, anch’esse come Sukhoi parte del gruppo United Aircraft Corporation (UAC). Costo di 72 milioni di dollari circa, per un programma costato otto miliardi di dollari che ha notevoli ambizioni e che vedrà i frutti a partire 2016 (primo volo) 2017 (introduzione sul mercato).
Insomma, ce ne sono di cose in questi due segmenti, a cavallo tra i regionali e la fascia “media” dei “single aisle”.
La situazione sarebbe già abbastanza complicata se sul più bello non fossero arrivati anche i cinesi. I quali hanno cominciato a fare partnership per la produzione di aerei occidentali (c’è una linea di assemblaggio dedicata agli A320 di Airbus, per dire) e che adesso, com’era prevedibile e previsto, sono entrati in partita con una loro piattaforma.
A realizzarla ci ha pensato COMAC (Commercial Aircraft Corporation of China), azienda di stato nata nel 2008 fondendo insieme le precedenti, più piccole aziende del settore che non avevano la massa critica sufficiente per realizzare un proprio progetto ma apparivano come molto amichevoli e “gestibili” dai partner occidentali che ci hanno lavorato per una quindicina d’anni.
L’azienda di Pudong, un sobborgo di Shanghai, è impegnata in due progetti. Da un lato c’è il ARJ21 Xiangfeng (la “Fenice che si libra”), un jet regionale in fase di test, dal costo di 20 milioni di dollari, con 309 ordini già pronti (tutti in Cina per il primo jet progettato interamente in Cina) e con una capacità di 78-105 passeggeri per 2200-3700 chilometri di autonomia. La progettazione del velivolo ad ala bassa e motore posteriore, con impennaggi di coda a T ricorda molto gli MD-80/DC-9.
Invece, il “bestiolone” nella fascia dei 158-174 posti è il Comac C919 che dovrebbe arrivare nel 2016. È praticamente l’ammazza Boeing 737 e l’ammazza Airbus A320. Costruito per rompere il monopolio delle due compagnie in questa fascia, è probabilmente avvantaggiato sua da un costo previsto più basso (nonostante non sia ancora stato annunciato quanto costerà questo velivolo) e da un mercato di riferimento che ha tutto l’interesse a privilegiare l’industria di stato visto che è composto da compagnie aeree a loro volta di stato.
La cosa divertente è che comunque i cinesi dovranno imparare a giocare una partita globale per quanto riguarda la fornitura di componenti. Nonostante il desiderio di integrazione verticale che la Cina sta mostrando in vari settori, quello della produzione di aerei di linea di proporzioni medio-grandi è infatti un tipo di gioco in cui la fornitura è globale e quindi tempi, rischi e attori sono sempre gli stessi per tutti.
Ad esempio: i motori del C919 saranno con tutta probabilità comprati da CFM International, cioè Snecma e GE Aviation, che come abbiamo visto poco sopra sono i fornitori anche di Airbus e di Boeing con il CFM56.
CFM International in questo caso dovrebbe fornire il motore LEAP (“Leading Edge Aviation Propulsion”) che è l’evoluzione dei CFM56-5B e CFM56-7B. Però i LEAP (variante 1B) saranno anche le motorizzazioni scelte da molte compagnie aeree clienti di Boeing per i 737 MAX, l’evoluzione dei NextGeneration (cioè stiamo parlando della futura terza generazione dei 737 – un programma nato nel 1967, cioè 46 anni fa – che entreranno in commercio nel 2017). Il punto è che le tre versioni MAX (737-7, 737-8, 737-9) costeranno tra gli 80 e i 110 milioni di dollari a velivolo. Invece, i C919 dovrebbero costare, secondo stime degli analisti, meno di 70 milioni di euro.
Nell’arco di dieci anni dovrebbe cambiare per sempre la faccia del mercato del trasporto aereo civile dal lato dei produttori. Pare già di vedere le prime compagnie europee e americane mettere pressione ai venditori tradizionali andando a fare shopping in Russia o in Cina. L’effetto a cascata sarà devastante e una nuova generazione di aerei, completamente diversi, prenderà il posto degli attuali.