Toccata e fuga a Basilea

A Basilea è in corso Baselworld 2013, l’edizione numero 41 di una delle più grandi e importanti fiere dell’orologeria e del gioiello al mondo. Ero curioso, gli orologi mi piacciono, sono andato a vedere e soprattutto a chiacchierare con quelli di Casio, che se volete è una delle cose più rivoluzionarie che siano successe al mondo secolare dell’orologeria meccanica: l’orologio al quarzo. Anche se, sorprendentemente, adesso sta avendo luogo una singolare convergenza d’intenti (più che di tecnologie) verso le lancette, cioè la rappresentazione analogica del tempo. Il tutto in una sola giornata, soleggiata ma anche un po’ concitata.

PS: ho messo i titoletti e non ho spezzettato la narrazione in più pagine, seguendo i consigli di un commentatore. Che ne dite?

La parola chiave è "intimità". Uno spazio raccolto, privato, che ti faccia sentire a tuo agio... Ma qualcosa si deve essere perso nella traduzione... (Foto WATCHONISTA)

1. DA QUI A BASILEA E RITORNO

Così, ho preso il treno EuroCity 50 delle 7.25 alla stazione centrale di Milano e, quattro ore e quattro minuti dopo, alle 11 e 29, sono arrivato a Basilea. Ero preoccupato per cosa mettermi, perché il 25 aprile il tempo dalle nostre parti sembrava dovesse essere ballerino con alternanza di sole e di nuvolo tendente a rovesci improvvisi, e a Basilea ancora di più: è pur sempre Svizzera, perdiana! E si sa che nella mezza stagione, della quale non si serba mai memoria tanto da negarne talvolta l’esistenza stessa, l’ansia da abbigliamento regna sovrana. Per questo motivo ho optato per un paio di jeans, camicia in cotone spesso e giacca di lino leggero, con un impermeabile sfoderato (credo che di là dalla Manica dicano “trench” e in effetti mi sentivo di andare alla guerra di trincea) da avvoltolare e riporre ordinatamente nello zainetto, che contiene oltre al MacBook Air anche una sciarpa di cotone — perché dopotutto non si sa mai. È la mia divisa da piccolo esploratore dell’informazione, che uso quando non so di preciso a cosa vado incontro ma non voglio rischiare di essere scomodo. E questa volta doveva essere tutto calcolato perché il tempo era talmente poco – e al tempo stesso così tanto – che un solo errore rischiava di compromettere tutto.

La missione era infatti, se possibile, impossibile (pardonnez le jeu de mots savoureux). Entrare alla fiera degli orologi più importante del pianeta – Baselworld – e uscirne in velocità dopo sole sei ore e un minuto, in tempo per prendere l’EuroCity numero 59 delle 17 e 31, con arrivo previsto alla stazione di Milano centrale per le 21 e 35, ovverosia le solite quattro ore e quattro minuti dopo. Incluso il tempo per arrivare in taxi dalla stazione alla fiera, dopo lunga attesa perché i tassisti di Basilea sono tutt’altro che veloci e pronti, anzi spesso e volentieri non hanno neanche voglia di arrivare sino in cima alla fila di passeggeri in attesa sotto l’inconsueto sole a picco del mezzogiorno svizzero e caricano gente a metà o proprio in fondo alla coda, provocando reazioni di sdegno da parte degli italiani sudati sotto il suddetto sole a picco, italiani che però hanno poca voglia e nessun coraggio di protestare per un malinteso senso di rispetto del superiore ordine e della maggiore precisione che si presume (scioccamente) sia propria degli svizzeri.

La fiera quest’anno è stata rinnovata con l’aggiunta di un nuovo padiglione ed ha adesso una estensione simile alla vecchia fiera di Milano-città, stando però nel cuore di un agglomerato urbano dalle dimensioni poco superiori a quelle del centro di Varese e, sicuramente, con una capacità ricettiva dal punto di vista alberghiero nettamente inferiore. Tanto che alcuni tra i più sconsolati lavoranti nel settore dell’orologeria, in realtà un piccolo esercito come vedremo, mi hanno raccontato che vanno spesso a dormire in comitiva nelle vicine Germania e Francia, alle volte anche a un’ora e mezza di macchina da Basilea, per poi tornare di corsa la mattina dopo prima delle sette e mezza all’apertura per gli operatori. Il tutto per i giorni della fiera che, senza alcuna ironia, gli organizzatori hanno cercato di rendere più semplice organizzando un press kit chiamato “survival kit” con tanto di croce bianca in fondo rosso e la consistenza di una valigetta del pronto soccorso, per “sostenere i giornalisti nella maratona di nove giorni in cui si sono fatti intrappolare”.

Il fatto che per la sua quarantunesima edizione la fiera sia stata rinnovata, con un nuovo padiglione futuristico realizzato dagli architetti locali Herzog & de Meuron (piccole archi-star che per le Olimpiadi di Pechino hanno realizzato lo stadio “Bird’s Nest”, a cui il nuovo padiglione non si può dire sia estraneo), rende interessante studiare il modo in cui professionisti del settore che vengono da un decennio tutti gli anni sino a Basilea si trovino perduti e disorientati: il semplice e repentino mutamento delle coordinate dei padiglioni di quella che deve essere percepita come un’industria che si muove con la velocità di un ghiacciaio alpino prima che nascesse Carlo Somigliana ha effetti sconvolgenti. Solo il rendersi conto che l’immobile struttura sociale ed economica dell’orologeria, il cui epicentro per due settimane è nella Regio TriRhena, non è in effetti davvero immobile, può avere effetti sconvolgenti sulla psiche provata dell’addetto ai lavori medio. Perché questo è un business costruito sull’idea che quanto più sei vecchio, meglio è: se l’azienda non ha un diciotto all’inizio dell’anno di nascita, non viene neanche presa sul serio. Piuttosto, si fa resuscitare il nome di un marchio trapassato remoto che con l’oggi non ha più alcun legame se non di ragione sociale. Ma qui la tagline classica dei marchi delle aziende è “Since 18xx”, se non “17xx”. Come molte banche dalle nostre parti.

Non so se si vede perché come fotografo sono davvero scarso (e poi la foto l'ho messa su Instagram, quindi la qualità è pessima). Ma questi orologi qui sono fatti tutti di legno, cassa bracciale e movimento!

Baselword è uno dei momenti topici dell’orologeria mondiale: qui convergono alcune migliaia di addetti ai lavori e giornalisti da tutto il mondo per incontrarsi, vedersi, parlarsi e, accessoriamente, mostrare le loro ultime cose. Il “Baselworld Brand Book”, il voluminoso elenco dei marchi presenti in fiera, quest’anno pesa pochi grammi meno di due chili (nonostante la copertina morbida e leggera), e nelle sue 430 pagine sono elencati 212 marchi, sessanta imprenditori o testimonial del settore, svariate centinaia di orologi. E non sono tutte novità, nel senso che il catalogo viene chiuso in redazione da una pattuglia di 31 giornalisti esterni e una dozzina di redattori il 15 marzo, un mese meno un giorno prima della fiera. Non c’è spazio, ad esempio, per l’annuncio di Rolex, che reintroduce una versione con lunetta in ceramica bicolore (nera e blu) del suo GMT-Master II poche ore prima dell’apertura ufficiale. O di Ressence che presenta il Type 3, orologio esoterico da 34mila dollari che ha lo speciale movimento e il singolare quadrante immersi in un certo tipo nafta che azzera la vischiosità e gli attriti, mentre il cristallo sapientemente sagomato dà un effetto tridimensionale alla lettura delle ore. O per Cartier, che lancia il movimento ID Two super-verde che cerca di porre rimedio al dispendio di energia (fino al 75% del totale) degli attuali, inefficienti orologi tradizionali con un calibro speciale sottovuoto spinto.

2. DENTRO LA FIERA

L’incontro con la fiera è soverchiante. Arriviamo affannati e accaldati dopo la predetta, lunga coda sotto il sole: sono accompagnato da un dirigente di Casio Italia, che è l’obiettivo della visita-lampo, dalla delegata dell’agenzia di relazioni pubbliche che cura l’immagine di Casio e da una collega giornalista, direttrice di un giornale online settore lusso e gossip. Siamo come piccole pagliuzze disperse nell’uragano dell’orologeria. Attorno a noi, in un chilometro di binari del tram che si infila lungo il decumano che taglia l’area della fiera di Basilea, ci sono quattro giganteschi padiglioni centrati attorno a uno spiazzo chiamato City Hall, c’è il grattacielo di un hotel Ramada e c’è anche una struttura per convegnistica chiamata familiarmente “Palace”.

Nel City Hall, sotto il sole di Basilea (l’ho già detto che faceva un gran caldo?), sono distesi due ristoranti all’aperto e un gazebo coperto dove vengono regalate alcune migliaia di copie di una cinquantina di riviste di orologeria di tutto il mondo più alcuni giornali (tra le quali riconosco il Financial Times e Il Sole 24 Ore) che hanno pubblicato inserti giornalistici a pagamento sullo stato del settore. Qui davanti passeranno in meno di dieci giorni quasi 100mila persone da più di cento paesi diversi. I soli giornalisti accreditati sono 3.500 da 70 paesi, mentre gli espositori sono 1.460 da quaranta paesi. Non sono questi i dati davvero impressionanti. È invece il muro di stand e strutture espositive montate nelle 12 hall (ogni padiglione ha tre o quattro piani di fiera) con una promenade interna per i Grandi Marchi che sembra il vialone di Dubai o lo skyline di Caprica, solo che i palazzi sono monoliti colorati con dentro Zenith, Rolex e Panerai.

Ecco, questa è la fiera. Hanno spostato un pezzo di città per farcela stare...

La cartina del posto, l’utile strumento che da sempre viene distribuito in tutte le fiere, è in tre volumi con due cartine ciascuno, più due ulteriori cartine volanti. Lo stand più grande ha una superficie di 1.625 metri quadri (il più piccolo sta strizzato in sei metri quadri) e solo le “facciate” delle strutture costruite nell’ultima settimana da una legione di operai carpentieri (circa 20mila) assomma a un totale di 21 chilometri. Non me l’aspettavo. Anche perché in questi 21 chilometri ci sono le finestre e gli espositori sui prodotti: gli orologi sono molto piccoli quindi lo spazio a disposizione è davvero notevole.

Immaginate di voler percorrere questi 21 chilometri e guardare tutto, magari soffermandovi anche per studiare alcune cose che vi colpiscono di più, fare le foto di altre che meritano, chiacchierare con i titolari e i commessi di questo e di quel marchio (ce ne sono 25mila, che si alternano negli stand per la durata della fiera). Impossibile, mi prende la vertigine solo all’idea.

E pensare che il bello delle fiere invece è proprio questo: la possibilità di incontrare personaggi altrimenti irraggiungibili, e incontrarli facilmente, velocemente e con tutta la loro mercanzia (almeno, quella che viene considerata la parte più importante della produzione) a portata di mano. Si può ragionare tenendo letteralmente in mano i gioielli della corona. A una fiera come quella di Basilea l’unica cosa più numerosa degli orologi sono i biglietti da visita, le “business card”, che verranno scambiate per un totale di sei milioni di volte. Un piccolo boschetto sacrificato per fare legna da carta in onore ai rettangolini promozionali, a cui si somma un’intera foresta tropicale di alberi decapitati per realizzare brochure e cataloghi, distribuiti ovunque. Regalano anche le riviste del settore, che notoriamente costano molto care: ci sono riviste in malese che vengono da Singapore e che normalmente non si trovano a meno di sessanta euro. Se uno ha la passione per queste cose, ovviamente.

3. GLI OROLOGI DI LUSSO E L’INCOGNITA COMUNISTA

È tutto una enorme, gigantesca, muscolare prova di forza per dimostrare che questo è il centro fisico e tangibile di un settore che vale miliardi di euro. Ma che risente degli effetti del cambiamento degli equilibri mondiali in maniera insospettabile. Nei primi undici mesi del 2012, ad esempio, le esportazioni di orologi dalla Svizzera – primo produttore al mondo del settore – sono cresciute del 13% a valore. Tuttavia, negli ultimi mesi dell’anno passato le esportazioni verso Hong Kong (il secondo mercato per la Confederazione elvetica) e la Cina continentale (il terzo mercato, assieme fanno il 30% del totale) sono calate rispettivamente del 19,9% e del 27,5%. Si tratta dell’area del mondo che compra più orologi, dopo gli Stati Uniti e prima dell’Europa, Italia in testa. La Cina comunista è insomma un pezzo di mondo cruciale per la sostenibilità di questo mercato, in cui ha avuto un effetto devastante la nomina di un nuovo Presidente della Repubblica popolare lo scorso 14 marzo, nella persona di Xi Jinping, già segretario generale del Partito comunista cinese da metà novembre 2012.

Xi è un “vecchio” comunista (di 59 anni, perché là i vertici dello stato di solito non superano l’attesa di vita media di un paio di decenni) integralista e tradizionalista che vuole portare ad esempio la cucina cinese “genuina” nei milioni di ristoranti aperti nel mondo dai connazionali migrati, sostituendola a quell’insieme posticcio di sapori aspro-piccanti-fritto-bolliti che vengono spacciati nei ristoranti della diaspora di tutto il mondo per “sapori genuini della Grande Cina.  Xi però è anche un indefesso cacciatore della corruzione in tutte le sue manifestazioni, per questo adesso milioni di cinesi stanno cominciando ad avere paura di esibire orologi preziosi e non li comprano più.

Non per timore degli effetti di un Monti o di un Tremonti qualsiasi armati di redditometro a caccia di evasori fiscali (reato che in Cina è perseguito più per dovere che non per convinzione), quanto perché i preziosi sono simbolo e manifestazione di corruzione: nell’Impero di mezzo l’abitudine millenaria di portare come forma di omaggio degli orologi preziosi a potenti e burocrati (spesso le due categorie si sovrappongono) risale a Matteo Ricci e al sedici-diciassettesimo secolo. Farsi vedere con un Jaeger-LeCoultre al polso a New Kowloon come nelle campagne di Kaifeng, nello Henan, equivale a firmare il proprio processo per tangenti, cosa che comporta la disgrazia e conduce quasi automaticamente alla condanna. In Cina perdere la faccia è una cosa molto brutta, e ancora di più perdere la testa, visto che per corruzione si rischia anche la pena capitale.

4. DALLA SWATCH ALLA CASIO

Benvenuto o viandante alla fiera dei balocchi meccanici, dove l'Art Decò incontra gli strass di Swarovski. Io sarò la tua guida.

Il culturismo dei segnatempo mi appare più leggero nel padiglione dominato dal marchio Swatch del gruppo Swatch: il più grande agglomerato di orologeria sul pianeta, nato dall’intuizione di Ernst Thomke a cui Nicolas Hayek riuscì a dare gambe e fiato, trasformandolo in un “mostro” con più di venti teste (da Breguet e Blancpain a ETA e Tissot, passando per Certina e Hamilton, per dirne meno della metà) e 6,6 miliardi di euro di fatturato nel 2012. Il padiglione è arioso, illuminato, con ampie vetrate e tutto completamente dedicato al marchio svizzero degli orologi al quarzo di plastica: per la prima volta in tre decenni ammesso al tempio dell’orologeria “buona”. Ci sono decine e decine di piccole bacheche con una parte delle infinite collezioni che nel tempo gli stilisti di Swatch hanno accumulato.

Aggiriamo questa sala di culto della cultura pop a cui manca solo una statua di Andy Warhol a fare da fontana nel centro, e saliamo al primo e poi al secondo piano dove si moltiplicano gli stand di espositori da tutto il mondo. Non siamo nella hall centrale, non giriamo intorno ai monoliti di Rolex e degli altri grandi – tra cui peraltro alcuni dei marchi del gruppo Swatch – ma in una parte “più giovane e dinamica” della fiera, o perlomeno così mi viene raccontata. Le luci sono più soffuse, pareti, soffitti e pavimenti scuri, gli spazi ricordano la tolda di una supernave container: lunghi corridoi infiniti scavati tra strutture posticce che a momenti sembrano oscillare. L’espressione “muoversi felpati” in quella penombra assume per me una nuova profondità. L’obiettivo comunque è far risaltare i coni di luce che illuminano i singoli, piccoli ma luccicanti orologi esposti un po’ ovunque.

Sono 768 metri quadri di stand, all'entrata c'è un muro di alluminio pressofuso alto sette metri con un G-Shock enorme che ne fuoriesce, dentro c'è una macchina di formula uno (la Red Bull, per la precisione) e se ti prendi il caffè ti trovi accanto la Canalis. Così, tanto per dire.

Arriviamo finalmente allo stand della Casio. È il posto da cui non mi muoverò più praticamente sino al momento di correre a prendere un taxi per tornare in stazione. È gigantesco, solido, imponente: vale la pena descriverlo. Tutti i grandi stand della fiera, e di molte altre fiere analoghe nel mondo, sono in realtà costruiti come dei castelli medioevali o delle ville romane: una struttura di perimetro che circonda una prima piazza centrale che fa da atrio aperto al mondo, un varco e una seconda piazza interna dove c’è un bar coperto dal proiettore sul quale verranno proiettate le slide della presentazione. La sala è piena di seggiole e tavolini, che creano un ambiente da piazzetta di località marina di lusso o di nave da crociera. Magari da bistrot elegante in un centro commerciale, le suggestioni sono molte perché l’architettura è provvisoria ma solida. Tramite fughe di scale ben nascoste si accede a un piano superiore dove sono stati organizzati degli uffici per i manager di Casio e il personale, e dove mettiamo il nostro bagaglio (borse e zainetti). Manca poco alla presentazione, giusto il tempo di mangiare un panino e visitare la collezione di orologi che Casio ha portato sino a Basilea.

L’azienda giapponese ha una storia affascinante. È stata fondata negli anni Quaranta da Tadao Kashio e i suoi fratelli, e ha iniziato a realizzare componentistica elettronica in un Giappone completamente annientato dalla guerra. Già negli anni Cinquanta ha iniziato a produrre calcolatrici elettriche, a cui negli anni hanno fatto seguito una lunga teoria di prodotti. Per restare fuori dagli orologi, Casio produce oltre alle calcolatrici e oggi ai calcolatori, anche le piccole calcolatrici scientifiche utilizzate a scuola o all’università da milioni di ragazzi in tutto il mondo (comprese le calcolatrici grafiche programmabili che negli anni Ottanta ci facevano impazzire tutti), fotocamere compatte, palmari con mini-banche dati, che oggi sono molto spesso diari tascabili o ancora più spesso i dizionari elettronici molto usati dagli studenti giapponesi per studiare le lingue compresa la loro, “pistole” da magazzino per la gestione di codici a barre, POS per i pagamenti, sistemi di stampa per etichette e cover di CD, proiettori piccoli e grandi, telefonini solo in Giappone, tastiere musicali dai sintetizzatori più gagliardi sino a pianoforti elettronici. E, sopra a tutto questo, gli orologi, di cui Casio è uno dei principali innovatori al mondo.

Il posizionamento di Casio – che poi era la cosa che più mi incuriosiva andare a vedere a Basilea – è strano. L’azienda è conosciuta per orologi al quarzo con display digitale molto economici che negli ultimi anni sono molto tornati di moda, sia nella versione in plastica che in quella metallica tradizionale e in una dorata di un certo impatto visivo. Ma non c’è solo Casio: da tre anni in Italia ha aperto ufficialmente la filiale dell’azienda giapponese che ha iniziato a ristrutturare la rete di distribuzione e differenziare i suoi marchi, portandone anche di nuovi. C’è infatti G-Shock, seguito da Pro-Trek (negli Usa è Pathfinder), Baby-G (la versione femminile di G-Shock), Edifice, Oceanus, e adesso anche il “nuovo” (per noi) marchio tutto al femminile , che ha come madrina e “ambassador” mondiale Elisabetta Canalis (presente in gran spolvero a Basilea).

Casio ha lavorato anche per costruire e portare avanti la sua storia di innovazione tecnologica. Ce lo ha spiegato Yuichi Masuda, director e membro del board, senior general manager della divisione “Timepiece”, e ce lo ha ribadito Giuseppe Brauner, il direttore vendite e marketing per l’Italia, che ha fatto partire la filiale nel nostro paese nel 2010. Il lavoro dell’azienda è stato quello di trovare le tecnologie migliori, produrle e affinarle costantemente.

5. LE TRE FASI DI CASIO

Da questo punto di vista l’evoluzione è abbastanza semplice da raccontare: Casio ha creato la sua divisione orologi in tre fasi differenti. La prima, tra il 1974 e il ’78, è quella della tecnologia low cost con l’obiettivo di creare un ampio mercato. È l’epoca dell’invasione degli orologini al quarzo (tutti ne abbiamo avuto uno) che hanno fatto esplodere il mercato. Esattamente trent’anni fa, però, nel 1983, Casio si inventa grazie a uno dei suoi ingegneri il G-Shock, l’orologio in grado di resistere a sollecitazioni prima mortali per un meccanismo meccanico o per un modulo elettronico. È l’invenzione di questo eclettico personaggio, Kikuo Ibe, che aveva rotto il suo orologio automatico da bambino e ha lavorato duro per realizzare il sogno di fare un orologio praticamente indistruttibile. Questa seconda fase di avanzata tecnologica fa fare dei salti da gigante a Casio: l’azienda inventa il concetto di orologio multifunzione in un’epoca in cui al polso sembrava si sarebbe potuto portare di tutto (c’è chi aveva l’orologio con la calcolatrice, chi il game&watch) e produce alcune innovazioni di spessore. Ad esempio, nel 1999 il primo orologio con il GPS o nel 2000 il primo con televisore da polso.

Terza e ultima fase: l’attuale svolta analogica. Gli orologi senza batteria alimentati dal sole, gli orologi radiocontrollati (prima cinque e poi sei frequenze radio, per ricomprendere dopo Usa, Europa e Giappone anche la montante marea cinese) e infine i cronografi al quarzo tutti di metallo, con funzioni fantasmagoriche riportare sul display analogico.

È l'orologio indistruttibile. Dentro ha anche gli ammortizzatori di gel che parano i colpi ricevuti dalla cassa e non li passano al modulo interno. Alto un metro e mezzo e aperto in sezione è ancora più bello...

Rimango affascinato. Conoscevo i G-Shock come tutti in Italia: gli orologi al quarzo resistenti, con cinturini in resina a dire la verità un po’ meno resistenti, quando eravamo ragazzi. E poi quelli rotondeggianti, utilizzati sul lavoro da chi si deve sporcare le mani. Adesso saltano fuori due categorie: i multifunzione super-colorati, le serie limitate, la serie analogica da aviatore. Il lusso abbordabile, la definizione della nostra identità, la dichiarazione forte e radicale sullo stile di vita che conduciamo e che vogliamo dare. L’Italia è prigioniera dell’idea di orologio elegante e costoso, l’orologio da sera, da prima alla Scala. Ma c’è anche la possibilità di mettere un G-Shock con lo smoking, di andare a una cena elegante con un orologio colorato e massiccio, dal look “forte”, come peraltro ci hanno abituato i Panerai e poi decine di modelli “over-size” negli ultimi anni.

6. L’EPICA E LA POETICA DEL CRISTALLO LIQUIDO 

Milano ha ospitato in queste settimane il primo temporary store italiano per G-Shock, che fa parte dei dodici mesi di festeggiamenti e iniziative organizzati in tutto il mondo per i trent’anni del marchio. È un anticipo di qualcosa d’altro? Forse presto anche l’Italia avrà la sua quota di flagship store monomarca, magari partendo proprio da Milano e da Roma. Dentro si respira un’aria lontana, che non sentivo da molto tempo.

L’analogico, a riguardare la storia del marchio “tosto” di Casio, fa sempre più la parte del leone. C’è ancora, intatto, però il sapore degli anni Ottanta – il più bel decennio che ci sia con la musica più bella che si possa ascoltare – a cui fa da cornice la plastica, la resina, il cristallo liquido: materiali che aspirano all’eternità e che sono il vassoio sul quale sono state rappresentate le informazioni più elementari per la mia generazione. Una rappresentazione potente e circoscritta, limitata: al cristallo liquido non puoi far fare altro che non sia già deciso dalla forma dei bastoni e delle asticelle disegnate che si “illuminano” annerendo (sublime contraddizione). Eppure, puoi giocarci e trarre da sette (poi 14) segmenti di cristallo liquido per ciascuna cifra qualsiasi cosa o quasi: anche alfabeti zoppicanti e persino strambi disegni.

Casio ha avuto il lusso infinito non solo di aver definito la forma e le regole dell’orologio al quarzo negli anni Settanta-Ottanta, ma di averle anche violate, arricchendo con G-Shock il quadrante di cerchietti, equalizzatori, indicatori di temperatura, marea, pressione barometrica. Tutti fatti con puntini e stanghette di cristallo liquido, e cerchietti divisi a spicchi come torte che contavano i centesimi di secondo frullando impazzite. C’è una poetica nella capacità che hanno avuto gli ingegneri giapponesi di questa azienda nel definire metafore e arredare spazi minimali, apparecchiando una tecnologia che la mia generazione avrebbe addomesticato negli anni della nostra formazione. Non a caso il motto di quest’azienda hi-tech nel mondo dell’orologeria è polisemico in modo straordinario e affascinante: “Da 0 a 1”.  Evocazione del mondo binario delle tecnologie digitali ma anche indicativo dell’approccio: creare qualcosa (1) dove prima non c’era niente (0). Innovazione rivoluzionaria sempre: una dichiarazione ambiziosa e molto, molto anni Ottanta, se non altro nell’ingenua ma genuina fede per la logica binaria.

Gli ultimi orologi di Casio, che via Bluetooth possono anche interagire con iPhone e Android, diventano sempre più interessanti e relativamente costosi: si arriva sino a 500 anche 600 euro per i modelli più accessoriati. Gli orologi spiccano però quando sono elettronici ma con “faccia” analogica, cioè a lancette. C’è una scelta strategica dietro: il 90% del mercato dell’orologeria mondiale è analogico, e nella strategia multibrand di un’azienda come Casio, in cui tutto è pensato e misurato, in cui ognuno deve immaginare gli obiettivi di qualsiasi attività commerciale o di marketing, e analizzare poi l’effettivo risultato raggiunto, lo spazio per crescere passa anche dall’innovazione e dal gusto del pubblico. Le lancette con sistemi innovativi di trazione indipendente su ciascun “braccio” sono ad esempio il segnale che l’azienda vuole entrare nel mercato in maniera originale e quindi riconoscibile.

Cosa mi lega al mio Sheen? My arm, of course...

L’esplosione di eventi nelle poche ore a Basilea è dirompente. E straniante. Il tassista arabo che parla solo tedesco ma poi capisce l’italiano, Elisabetta Canalis che parla in inglese di ciò che la lega a Casio (“My arm”, dice abbozzando una battuta che, bisogna ammettere, ha un suo sapore surrealista ma lasci alquanto perplessa la stampa internazionale), i monumenti-megaliti realizzati per celebrare il culto dei segnatempo, il senso di un mercato che produce beni il cui valore non sta nella funzione d’uso – nessuno guarda più l’ora nell’orologio che porta al polso – ma in ciò che rappresenta per chi lo indossa e negli occhi di chi lo vede. Casio in questo è uno straordinario punto d’entrata, perché produce orologi da quarant’anni ma è anche e ancora un alieno appena sbarcato a Basilea, nel tempio dell’orologeria.

7. IL MURO DI ALLUMINIO

Davanti allo stand di Casio, a fare da parte integrante della struttura dello spazio espositivo, c’è un’opera d’arte che è anche un muro maestro alto sette metri e totalmente realizzato in alluminio con fusioni e lavorazioni date a un artista giapponese di straordinaria tecnica oltre che capacità espressiva. Il monumento è arrivato in nave, partendo mesi prima dal Giappone, e inserisce all’interno di una brutale struttura in alluminio un roccioso prigiono che sporge appena sbozzato: un gigantesco G-Shock che fa impallidire anche i dimostratori alti un metro e mezzo all’interno del perimetro Casio.

Esco dallo stand di Casio prima degli altri, ci dobbiamo avviare alla stazione, dobbiamo letteralmente scappare. Riconosco appena fuori dalla porta dello stand Casio, impegnato a guardare il suo lavoro e segnare qualcosa sul telefonino, l’artista che ha compiuto l’opera. Me l’hanno indicato, è un signore minuto sui sessant’anni. ma non so come si chiami, non lo ricordo o non l’ho capito: sul mio taccuino il nome non c’è. Mi avvicino nonostante tutto, mi fermo e lo saluto, ringraziandolo e complimentandomi per il suo lavoro. È sorpreso ma cortese, molto gentile e sorridente. Ci stringiamo la mano, mi guarda mentre mi allontano e deve pensare che sono uno di quei matti di occidentali che si incontrano alle fiere, che fanno cose come salutarti senza un perché. Per quel che mi riguarda, però, sono contento: c’è tanta purezza oltre che forza nell’opera di quest’uomo. Scendo al piano terra occhieggiando a destra e sinistra per cercare di rubare qualche altra impressione di questa gigantesca fiera che, ho già capito, dovrò tornare a vedere un altro anno con più calma e per più tempo, magari due o tre giorni. Ci sarà modo, confido. Adesso devo tornare a Milano.

Antonio Dini

Giornalista e saggista, è nato a Firenze e ora vive a Milano. Scrive di tecnologia e ama volare, se deve anche in economica. Ha un blog dal 2002: Il Posto di Antonio