Siamo sicuri che i nostri giornali siano poi così Web 2.0?
Ho letto un articolo interessante, di cui si è parlato parecchio in questi giorni. L’articolo di Serena Danna “Il movimento 5 Stelle e quell’uso (a bassa tecnologia) della Rete”, catenaccio: “Il Movimento comunica su Internet con un blog e un sito di 12 anni fa Ma evita le interazioni del «web 2.0»”. Una breve ma circostanziata analisi degli strumenti utilizzati dal Movimento 5 Stelle, dalla quale risulta che la neonata forza politica nata in rete e che della rete vuole fare lo strumento di democrazia che cambierebbe addirittura la natura e il mandato dei parlamentari eletti, in realtà la rete non la usa come potrebbe. “Come insegna l’esperienza di Barack Obama, usare la Rete significa innanzitutto rispettare la sua natura: aperta, fluida, trasparente. L’opposto di quanto accade oggi in casa 5 Stelle”, conclude il suo articolo Danna.
Dato che in questi giorni ho rimesso mano a un po’ di materiale perché ho ricominciato il corso alla scuola di giornalismo della Cattolica su temi vicini (Informazione e new media), provo a fare il ragionamento simmetrico su come i giornali e i mezzi d’informazione italiana utilizzano la rete. Tanto per capire da che pulpito viene la predica. Anche perché i giornali stanno soffrendo la crisi e hanno un disperato bisogno di cambiamento, proprio sul web. Cominciamo però con la crisi della stampa: la vulgata vuole che derivi dal crollo della pubblicità e dalla concorrenza della rete, ma in realtà gli indicatori del calo di vendite dei giornali predatano gli anni Duemila. Insomma, la presunta medicina del web serve a curare una malattia diversa da quella che normalmente s’intende.
Vediamo l’uso della rete fatto dai “grandi”, i primi sette siti d’informazione per utenti unici al giorno secondo la misurazione di dicembre 2012 di Audiweb: Repubblica, Corriere della Sera (per cui scrive Danna), TgCom24, La Gazzetta dello Sport, Quotidiano, Il Sole 24 Ore (giornale con il quale collaboro da dodici anni), La Stampa.
In un ambiente unico e molto più saturo di quello analogico (perché giornali, televisioni e altri canali di informazione sono presenti contemporaneamente nel web) e nonostante ci siano stati quasi venti anni di tempo per riflettere sulla trasformazione dell’informazione al tempo del web (la trasformazione dei turni di lavoro, il nuovo ciclo della notizia, il quotidiano di carta per gli approfondimenti e il web per l’informazione in tempo reale, da ultimo le edizioni intermedie con i tablet), la struttura interna dei grandi quotidiani è rimasta sostanzialmente la stessa. A fianco dell’ufficio di direzione, della caporedazione e delle redazioni tradizionali (interni, esterni, cronaca, sport, costume e società, etc.) c’è l’entità anomala chiamata “redazione online” o redazione web, che nei giornali di provincia è di solito tenuta in piedi da una-due persone, mentre nei grandi giornali è un contenitore per dieci-trenta giornalisti (a fronte di organici che oscillano tra i trecento e i quattrocento giornalisti dei grandi quotidiani).
La struttura del lavoro è la stessa: tutta la macchia del quotidiano, comprese le riunioni del mattino e del pomeriggio, lavora come obiettivo primario per l’edizione di carta del giorno dopo (che viene chiusa e stampata la sera tra le 22 e mezzanotte), mentre la redazione online “acchiappa” autonomamente un po’ di notizie. Se c’è uno scoop del giornale, viene di norma tenuto per l’edizione di carta. Se c’è una notizia-bomba, sull’online ne scrivono quasi sempre i semi-sconosciuti redattori del web, mentre le firme sia dell’approfondimento che i titolari dei presidi (i giornalisti che seguono i vari personaggi o ambiti d’interesse) prevalentemente sulla carta. Proprio come negli anni Novanta.
Se si va a guardare sulla “Wayback Machine” di Archive.org, poi, è sorprendente la somiglianza tra le home page del 2000 e quelle di oggi. Non tanto per la grafica, che viene cambiata ciclicamente da costosissimi studi di design internazionale (vanno molto gli spagnoli nel settore) ma per la struttura della gabbia. Cinque moduli in orizzontale di uguale grandezza tanto per Repubblica che per Corriere e Sole 24 Ore. Da quindici anni a questa parte. Lo scopo è servire la pubblicità con caratteristiche simili a quelle della carta e al tempo stesso gestire la compatibilità con monitor a risoluzione 800×600 o 1024×768, cioè SVGA e XVGA, risoluzioni introdotte come standard dei PC rispettivamente nel 1987 e nel 1989.
Per quanto riguarda la distinzione tra giornali di qualità (come New York Times e Washington Post) e popolari (come il Daily Mail), in Italia non esiste e l’online non fa eccezione. La colonna di destra dei siti web dei grandi quotidiani Repubblica e Corriere è una sorta di bestiario di bassa umanità: viene costantemente criticato ma serve a far girare i contatti. Così, nell’epoca del Web 2.0 e dei social media, i grandi giornali si trincerano dietro un muro di “strano ma vero” morboso e soft-porno, fatto di gallerie fotografiche a tema (donne seminude e strani casi umani, che fanno pensare a redattori specializzati nel trovare le stranezze in rete, più che le notizie) e video generalmente “scippati” da YouTube. Tutte le immagini e i video vengono presentati a bassa o bassissima risoluzione e bloccati in maniera tale da impedire al lettore meno sgamato la possibilità di “scaricarli” sul proprio PC. Nelle gallery a malapena è presente un titolo e talvolta una lunga didascalia alla prima foto, poi niente. Non c’è storia, non c’è intenzione di raccontare.
Non c’è neanche traccia di inchieste partecipate, di strumenti tecnologici di “grass root journalism” o di “citizen journalism” (che peraltro sono due cose diverse) che facciano emergere dalla società nuove mappe per rappresentare il territorio italiano. C’è anche pochissimo, appena qualche embrione, di open data e di grafici per la visualizzazione di informazioni complesse e basate sui numeri. Non parliamo poi delle infografiche interattive o dei nuovi modelli di racconto delle storie attraverso lunghe animazioni adatte a fare “data visualization”, che sono da tempo il fiore all’occhiello delle redazioni di El Pais, del Financial Times, di alcuni giornali tedeschi e del New York Times e di vari periodici americani (come l’Atlantic Monthly). Tutte cose che da noi praticamente non esistono se non quando vengono ripresentate da queste fonti.
Anche dal punto di vista della “stampa popolare”, il cui campione online è il britannico MailOnline, versione digitale del Daily Mail, come riportano vari studi sul settore non ultimo quello di Alessandro Gazoia (a.k.a. jumpinshark) “Il web e l’arte della manutenzione della notizia” (sul Post se ne parla qui), c’è della qualità. Per raggiungere i suoi 50 milioni di utenti unici al mese (Repubblica ne raccoglie 1,5 milioni, il Corriere ne raccoglie 1,3 milioni) il MailOnline può contare su di un “giornalismo specializzato di qualità”. Spiega jumpinshark: “L’espressione precedente, nonostante le molto necessarie virgolette, non è un paradosso, perché quell’informazione bassa è pur sempre fatta con tecnica e mezzi assolutamente superiori alle limitazioni nostrane”.
Mentre da noi ci sono gallerie di foto prive di didascalia e di un senso della storia, montando vecchie e nuove foto a bassa risoluzione con l’unico obiettivo di acchiappare più clic possibili, dall’altra parte c’è l’intenzione di accogliere e affascinare il lettore “popolare”. È la differenza tra feuilleton e la spazzatura.
Come scrive anche il direttore del qui presente Post, Luca Sofri, “In questo, i giornali italiani sono molto più dilettanteschi e arretrati: i loro meccanismi principali di sviluppo di sviluppo del traffico online sono due, il boxino morboso e la gallery”. Insisto su questo aspetto, appoggiandomi a quanto scritto per ultimo da jumpinshark, perché non è cosa di secondaria importanza. È da notare per inciso infatti che si tratta della stessa strategia già utilizzata dai grandi portali internet negli anni Novanta. I grandi portali internet della sbornia della new economy, quelli che mettevano i cd omaggio sui treni Eurostar e che avevano cominciato ad ammassare contenuti di qualità sempre più “bassa” semplicemente per guidare le classifiche dei clic.
La fondamentale questione economica. In rete la pubblicità vale molto meno (si parla di centesimi di euro per blocco di contatti) e serve una strada per raccogliere fatturato. L’idea che i giornali italiani stanno per implementare al fine di ridare smalto ai conti economici è, a quanto pare, quella di creare dei paywall, mettere cioè i contenuti a pagamento. Lo ha dichiarato di recente anche Carlo De Benedetti, sognando di far fare a Repubblica nel 2013 quello che il Wall Street Journal e il New York Times hanno fatto prima del 2000 (per poi cambiare idea più volte e rimodellare nel tempo il tipo di offerta a pagamento con il mix di articoli gratuiti).
A fronte di questo c’è anche la bassa qualità degli archivi delle notizie e la limitatezza dei CMS, i software con i quali sono costruiti gli archivi dei contenuti dei quotidiani. Repubblica e Corriere hanno in linea un tesoro di decenni di informazione, mal formattata a tal punto da renderla praticamente inutilizzabile. Inoltre, utilizzano software proprietari di aziende come EidosMedia, che sviluppa il CMS editoriale Methode. È una delle poche piattaforme multimediali rimaste in piedi dall’epoca dei sistemi editoriali che dovevano legare assieme redazione, grafica e tipografia nella realizzazione del giornale. Adesso lo scopo è legare assieme audio, video, testi e impaginati, per realizzare contemporaneamente contenuti per media diversi. C’è un problema: ci sono pochissime società al mondo che realizzano questo tipo di software.
Utilizzando tutte le testate le stesse piattaforme software con soluzioni pacchettizzate (cioè prefabbricate), sono possibili solo poche personalizzazioni e soprattutto di tipo prevalentemente grafico. C’è un appiattimento sostanziale nelle funzionalità dei siti, cioè, che si riflette in un complessivo appiattimento della capacità di innovare e coinvolgere delle singole testate. I soggetti con meno capacità di investimento, poi, utilizzano soluzioni da blogger anche per costruire l’intero sito web del giornale (come il Fatto Quotidiano, che ha come tag nel sorgente della sua home page: “meta name=”generator” content=”WordPress 3.2.1″ /”).
Ancora, l’apertura ai social. Una strategia che viene considerata necessaria e anzi, molto urgente, da tutti gli osservatori. Tuttavia, la novità maggiore dei quotidiani italiani negli ultimi anni sono stati i blogger “aziendali”, che sono giornalisti interni o degli “ospiti” (ne ho uno anche io su Nova100 del Sole 24 Ore) e che apparentemente seguono la logica dei diari in rete. Non è esattamente una rivoluzione di oggi: la locuzione “web log” è stata coniata nel 1997, mentre la crasi di “web log”, “blog”, è del 1999. La novità vista così non sarebbe, per così dire, assoluta. Ma c’è di più.
È da rimarcare il fatto che i blog, anziché essere diari o spazi più privati e informali di giornalisti e lettori “attivi” che trovano nuovi stili e nuovi canali per comunicare con il pubblico, sono per la maggior parte delle volte di fatto delle rubriche o dei commenti e corsivi di firme interne e collaboratori strutturati dei giornali. Sono cioè la versione travestita di sistemi che hanno duecento anni.
Invece latitano ancora l’integrazione con Twitter nelle home page, un uso strategico di Twitter (che oggi fa invece da semplice feed Rss dei titoli delle notizie o da espansione dell’ego di alcuni giornalisti) e competenza su Facebook per fare “content curation” strutturata, la creazione di moderne piattaforme per la gestione delle dirette (Repubblica faceva le dirette delle partite di calcio già negli anni Novanta aggiornando rapidamente una pagina web) e versioni palatabili e innovative delle app per tablet, per adesso semplici sfogliatori dei PDF del giornale, con poco spazio per l’innovazione.
Taciamo poi sul coinvolgimento dei lettori e il tipo di dibattito che si crea nel recinto chiuso dei commenti alle notizie (quando presenti) o nei forum. Strumenti, questi sì, anni Ottanta che generano forti problemi ai quotidiani con serie infinite di troll e di commenti inappropriati a una conversazione civile tra persone adulte che non intendono prendersi a cazzotti poco dopo. Stesso trattamento viene riservato a molti dei giornalisti “di fama” presenti su Twitter, che vengono spesso presi in giro o insultati da troll pseudo-anonimi. In Italia i professionisti della comunicazione capaci di costruire, curare e far crescere una comunità di lettori attivi in rete si conta sulle dita di una mano. E qualcosa avanza pure.
Insomma, rispetto al Movimento 5 Stelle e a Beppe Grillo quella dei giornali italiani non sembra essere una situazione molto più rosea. Tecnologie arretrate, trucchi di bassa lega per fare audience, meccanismi e forme di pensiero degli anni Novanta e pochissima apertura alla rete e alla possibilità di coinvolgere in maniera piena i cittadini (che oltre che lettori sono anche i primi testimoni delle notizie, soprattutto a livello locale) a cui si contrappone invece un deciso verticismo nel modo in cui vengono erogate le notizie, nella mancanza generalizzata di link trasversali (alle fonti, agli altri giornali, ai contenuti presi dalla rete), negli spazi gestiti in maniera rigida per l’espressione dei lettori. Infine, scarsa conoscenza dei social media e strutture organizzative ancora all’antitesi di quelle auspicate oramai da quasi vent’anni.
Se vogliamo guardarla dal lato positivo, si può notare una cosa: ci sono ampi margini di miglioramento.
PS:
Scusate il ritardo: ci sono state le elezioni, le dimissioni del Papa, la pioggia di meteoriti e un sacco di altre cose anche nel mio personale micro-cosmo che hanno tutte congiurato per rallentare i tempi di studio del materiale sulle “flying boat” della Pan Am, e quindi la conseguente scrittura. Ma non temete, perché la terza e ultima parte sta arrivando. Assieme a una sorpresa: un paio di miei eBook che dovrebbero uscire nelle prossime settimane su argomenti vari trattati qui sul Post. Una specie di versione “extended” e riorganizzata si spera in meglio del materiale esistente, con un’aggiunta del 50%. Ditemi se vi interessa.
Intanto, però, mi volevo occupare di quest’altra cosa.