Pensieri sulle elezioni viste da Manhattan
Lasciamo perdere chi salta giù dal carro di Hillary e chi sale su quello di Trump. Chi l’aveva detto. Chi aveva capito tutto e chi non ci ha capito niente. Chi vuole fuggire in Canada e chi non è mai stato così orgoglioso di essere americano. Hillary ha vinto il voto complessivo popolare di queste elezioni. Ma come quattro altri candidati nella storia prima di lei non è bastato. Perché?
Marilyn arrivata dal Belize, da 21 anni a New York senza documenti, ha votato ieri per la prima volta.
L’ho incontrata in un seggio nel quartiere di Inwood, a nord di Manhattan, in un’area in cui la lingua dominante è lo spagnolo. Occhi lucidi e voto per Hillary, “perché sarà la prima donna presidente”.
John (Giovanni) ristruttura case a Manhattan ed è iscritto da sempre al partito democratico, come i suoi genitori arrivati dalla Sicilia. L’ho incontrato due giorni fa per parlare di un lavoro da fare a casa. Mi ha detto che nel 2008 aveva votato “for the black guy better than a woman” (meglio il nero della donna). Questa volta avrebbe votato Trump.
La prima donna non ce l’ha fatta. Anche perché non era esattamente un volto nuovo. E queste sono state, ancora una volta in America, le elezioni del cambiamento. Chi ha votato Bernie Sanders (come me) almeno questo (solo questo) lo aveva capito. Sanders aveva battuto Hillary in Michigan, lo stato di Detroit e lo abbiamo tutti velocemente dimenticato. Una parte non piccola di quell’elettorato è andata trasversalmente a Trump.
Nel programma “La Casa Bianca” (Rai Tre) a cui sto finendo di lavorare abbiamo raccontato storie. Una, quella di Nicolai, ha spiegato bene questa transumazione da Sanders a Trump. I millennials sono stati a casa. Come del resto fanno spesso nelle elezioni per la Casa Bianca. Si erano svegliati con Obama ma dopo la sconfitta di Bernie sono tornati a dormire.
La legacy (l’eredità) di Obama è stata lacerata. Il presidente esce dalla Casa Bianca con il 49% di popolarità, che è tra le più alte mai registrate alla fine di un mandato. Ma nonostante gli sforzi, i palchi comuni, le strimpellate di Bruce Springsteen e compagnia, questa popolarità non si è trasferita ad Hillary.
Trump ha usato quel semplice mezzuccio che si usa in politica da sempre. Quello di appiccicare un nomignolo all’avversario. Così aveva distrutto i suoi 17 avversari nelle primarie. Hillary è diventata “crooked Hillary”, Hillary l’imbrogliona e il messaggio è passato. A Trump ne potevano essere affibbiati diversi. Non è stato fatto perché le campagne elettorali sofisticate non lo fanno. E ci sarà da riflettere anche su questo (almeno per chi fa questo mestiere). I democratici hanno ripetuto fino a sfinirci che “quando loro volano in basso, noi voliamo più in alto”. Ci sentivamo così migliori ed eravamo dei fessi.
Io ho votato a Manhattan dove vivo. Il risultato nell’isola è stato di 515.481 voti per Hillary e 58.935 per Trump (98% dei voti scrutinati). Trump massacrato nel luogo della sua residenza. Nel luogo in cui vivono più miliardari ma anche nel luogo della massima diversità di colori (di pelle) al mondo.
Trump ha vinto tra gli uomini, bianchi, sposati, dai 45 anni in poi, non laureati, che vivono fuori dalle grandi città. Ma la questione che ha giocato di più è stata, probabilmente, una sottotrama presente in tutti questi 18 mesi di campagna elettorale, dalle primarie in poi. “The browning of America”. Proprio quella che aveva spinto Obama alla Casa Bianca.
L’onda revanscista, legata strettamente alla propria condizione economica minacciata (o presunta tale) ha galvanizzato un nuovo elettorato che ha eretto un muro domestico contro tutti quelli dalla pelle e religione diverse da quelle dominanti. L’America inclusiva è stata messa fuori dalla porta. E Hillary non aveva la chiave per aprirla.