Il guru americano
Ho visto questa settimana ad Agorà su Rai3 Storace apostrofare un esponente montiano con l’ormai classico «ma chi te l’ha insegnato, il guru americano?»
Spernacchiare il fantasma di David Axelrod, lo stratega obamiano, sembra diventato uno degli sport minori di questa campagna elettorale, da quando si è diffusa la notizia della consulenza a Monti. Tutti a ridere sul paraguru. A fare ironie sulle war rooms. A sintetizzare la lezione vincente di Obama in un surplus di aggressività. E via così, banalizzando una macchina complessa che ha incrociato in America un esercito di volontari con la grande copertura personalizzata sulla rete, mutuata dalla pubblicità. E, in questa cornice, ha impresso segni evocativi di un futuro migliore.
Un bellissimo documentario del 1993, nominato per l’Oscar, si chiamava, appunto, The War Room e ha raccontato la campagna vincente di Clinton del ’92, dall’interno della stanza itinerante degli strateghi della sua organizzazione. Da quei luoghi è nata la celebre frase It’s the economy, stupid, divulgata da James Carville, paraguru di allora, per dirla con i sapientoni di casa nostra. Carville è poi diventato commentatore politico fisso di CNN. Stesso destino per Karl Rove, il suo omologo di Bush, al lavoro per FoxNews. Axelrod è più organico a MSNBC, la terza grande allnews americana. Queste tre televisioni sono il territorio chiuso entro cui si è animata l’ultima elezione americana. Complessivamente nel prime time fanno tre milioni di telespettatori, l’uno per cento della popolazione. Nel nostro paese si dice, invece, che la televisione formi il 75 per cento del consenso. Gratis. Partecipando semplicemente ai programmi che si sono moltiplicati in questa fase, invece di spendere milioni di dollari nell’industria dello spot da 30 secondi. La televendita elettorale in America è senza limiti di spesa ma limitata nei dibattiti (pochi e decisivi) e giocata ormai nel quotidiano molto di più online. La vecchia televisione non informa più ma megafona, amplifica quello che proviene dalla rete. Quindi non sembrano esperienze paragonabili, l’italiana e l’americana. Ed è questo il limite strutturale delle consulenze estere di Monti (anche quella inglese). Ma vent’anni dopo The War Room, le campagne elettorali sono diventate meno semplici e sempre più ricche di collaborazioni composite e, anche, sorprendenti.
Da noi, a dire il vero, ci si diverte non solo con i paraguru americani ma anche con i Casaleggio, i Gori. Ma con Axelrod è partita una gara fessa e patriottarda a difendere il paese dall’invasione dell’americano. È possibile però traslocare in un mese una struttura e una idea che in America richiedono anni di preparazione e una raccolta di fondi incomparabile? È impresa ardua e appare soprattutto difficile la costruzione di una narrazione ottimista, una visione che vada oltre l’economia domestica, per tuffarsi in un progetto che includa i giovani, la grande rimozione italiana. Quello che ha fatto Axelrod con Obama, costruendo a pezzo a pezzo un mosaico con una prospettiva, un disegno. I guru servono a questo. A ricondurre a unità le varie specialità che in una campagna elettorale moderna concorrono a “emozionare” nella scelta elettorale. Quello che aveva fatto Renzi. E prima ancora Grillo. Anche con i loro guru.
Oggi leggiamo sul Los Angeles Times un commento a proposito del cambio del capo degli speechwriters della Casa Bianca, quelli che scrivono i discorsi per Obama. Jon Favreau, 31 anni, andrà a scrivere per Hollywood, come ha già fatto il suo collega Jon Lovett. Dice il Los Angeles Times di Favreau :«He can write comedy, history, drama, suspense». Insomma sa scrivere di tutto. Spulciando i commenti alla notizia su Politico vedo che un lettore ha aggiunto «sì, sa scrivere anche fiction». Vi viene in mente uno in Italia così? L’unico che non ha bisogno di guru?