Quentin Tarantino spara alla storia
Ho visto Django unchained – il film di Tarantino uscito in America il giorno di Natale – in un cinema di Philadelphia, nel quartiere in cui continua a crescere una delle università più antiche d’America. A ogni ammazzamento, spappolamento, azzoppamento la sala reagiva ridendo e applaudendo. Un gruppo di ragazzi afroamericani con felpe e cappellini della locale Penn University, nella fila sotto la mia, era veramente divertito e alla fine commentava entusiasta. (La prima ufficiale del film era saltata per la quasi contemporaneità con la strage di bambini nel Connecticut.)
Tarantino non è più un ragazzone indipendente da Hollywood. Nel 2009 Bastardi senza gloria raccolse 120 milioni ai botteghini americani e nell’ultimo fine settimana Django è stato battuto di un soffio solo da Lo Hobbit. Il film è riassumibile in una frase recitata che spiega chi è Django, lo schiavo liberato to kill white people and get paid for it (per ammazzare dei bianchi ed essere pagato per farlo). E questa citazione porta dritta dritta all’altra che è quella celebre alla fine de L’uomo che uccise Liberty Valance di John Ford, di cinquanta anni fa : This is the West, Sir. When the legend becomes fact, print the legend (questo è il West, signore. Dove se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda). Django, il film, sta dentro queste due frasi e ci sta bello largo. Tarantino, notoriamente, ha detto di non amare John Ford (il grande John Ford) e di essere invece un cultore di Sergio Corbucci (che da noi nessuno, con poche eccezioni, si fila più). Di Ford però dovrebbe apprezzare almeno la citazione sulla leggenda che si fa realtà perché è questo che fa il suo film con il supereroe Django.
Ambientato nel West delle consuete Alabama Hills della California, senza indiani pellerossa e sette anni anni prima dell’inizio della Guerra Civile, il film entra dentro la grande ferita americana non risolta dall’elezione di Obama: quella della schiavitù. E lo fa senza le moine politicamente corrette di sempre di Hollywood. Samuel L. Jackson – l’attore icona di Tarantino (che se non vince l’Oscar è uno scandalo) – racconta provocatoriamente la storia dello schiavo nero reificato nel lavoro della piantagione dal padrone bianco, riscrivendo dolorosamente un pezzetto di storia sulla questione. Non ho capito, come tanti, la polemica di Spike Lee, che ha accusato Tarantino di avere usato a profusione il termine offensivo nigger per gli schiavi neri del film, dicendo che «È stato un olocausto, non uno spaghetti western di Sergio Leone». A metà Ottocento i neri non venivano chiamati afroamericani. È uno schifo (storicizzato) ma è così.
Django è un western perché Tarantino ha sempre fatto western. È il prodotto della sua formazione di dropout al primo anno di liceo. Il prodotto del mito fermo alla regressione buoni-cattivi e della cultura del genere – lo spaghetti western, la nostra serie A retrocessa in serie B – di gerarchie coltivate nelle cineteche e nei filmforum delle parrocchie di destra e sinistra. Io ero scosso a tratti dalla violenza che in Django si trasforma in elegia dello sterminio. Mio figlio, 15 anni, mi sfotteva: più a suo agio di me con dialoghi e personaggi ibridati da cartoni e videogiochi. Certo, per due ore e quarantacinque minuti, l’allegoria tarantiniana vi lascerà divertiti/tramortiti. Fino alla catarsi del lieto fine. A cominciare dalla playlist, costruita a priori, che è l’architettura portante del film. La musica sottolinea ed evidenzia, entra ed esce come un filo cucito dentro gli spara-spara, senza paura di essere ridondante. Anzi cercando proprio il raddoppio, il triplete, l’esondazione.
Vent’anni dopo Le Iene e altri otto film, a 49 anni, Tarantino dice di continuare ad amare l’analogico e la celluloide. Non usa smartphone e si è concesso un iPad che tratta, pare, distrattamente e con lunghe pause. Quentin Tarantino è un bravo ragazzo, all’antica. Che non a caso, anche lui, ha detto di essere cresciuto con il J.D.Salinger del giovane Holden.