La televisione che verrà e quella che non c’è più, in America
Questa è la settimana in cui i grandi network americani presentano ai pubblicitari la televisione che verrà, quella della prossima stagione 2012-2013. Ogni giorno un network fa una festa con anteprime e annunci di rinnovi di serie. È, come ha scritto il New York Times, la settimana della moda della televisione.
La torta da dividere è da 60 miliardi di dollari e si scommette, si compra spesso sulla fiducia. Quest’anno la novità è l’ingresso della televisione sul web. Con tanta, tanta roba e grandi investimenti. Siamo ancora a una fettina della torta che ha un obiettivo di tre miliardi di dollari nella prossima stagione ma il terreno comincia a tremare sotto i piedi dei grandi capi dei network. Aol, Google (YouTube), Hulu, Microsoft, Vevo, Yahoo hanno spinto gli stessi network a pensare programmi originali per la rete, anche con loro star. Un’idea che una Rai meno affetta da elefantiasi dovrebbe abbracciare subito. Nascono nuovi studios che lavorano solo per il web e si respira un’aria da conquista del West, con startup che fioriscono con i soldi della Silicon Valley. Da David Fincher a Richard Linklater, ci si sono buttati in tanti e la rete in questa fase sta diventando selettiva perché i soldi investiti cominciano a pesare (ad esempio i cinque milioni per ognuno dei cento canali di YouTube). Le televisioni collegate al web (saranno 350 milioni nel 2015) e gli abbonamenti DVR, che acquisti dai providers locali, stanno erodendo ascolti alla televisione in diretta (una caduta verticale nelle ultime dodici settimane, fino al 15 per cento in meno). La storiella per cui ognuno di noi si fa il suo palinsesto ormai è realtà. Mio figlio ormai mi sfotte quando guardo la televisione alle ore canoniche, quelle che si leggono sui giornali alla pagina dei programmi tv. Gli adolescenti guardano sempre più televisione (2,5 per cento in più quest’anno) ma su diverse piattaforme. L’eccezione dello sport live rimane l’ultima trincea della televisione tradizionale.
I grandi network hanno paura anche per altro. Il calo di ascolti di programmi-traino come sono stati American Idol e Dancing with the Stars può avere un effetto di trascinamento al basso di tutti i palinsesti. CBS ha cancellato Unforgettable, A Gifted Man e NYC 22, che mi piace. ABC cancella Awake e annuncia The Carry Diaries, Sex and the City negli anni Ottanta. J.J.Abrams ci riprova con Revolution, dopo l’affondamento di Alcatraz. Anche Terra Nova e The River di Spielberg chiudono subito. XFactor non è stato il successo sperato e House e Desperate Housewives hanno chiuso per sempre. Fox ha rinnovato Touch. Attesa per 1600 Penn di NBC, ancora, dopo Veep, un’altra comedy sulla Casa Bianca.
La consueta moria di shows (il 70 per cento non superano, in media, la prima stagione) è la forza della televisione americana. Anche gli show bocciati generano comunità di fedeli che protestano, scrivono, terremotano i social network e, in alcuni casi, scendono addirittura in piazza, se non in luoghi dove si ritrovano per visioni comuni del programma cancellato. Poi si continunano a vendere gli show bocciati nel mondo e noi siamo grandi acquirenti di quelli che non passano lo sbarramento di ascolti della Nielsen. Nello stesso tempo gli studios provano a reinventarsi ogni anno. Ma manca l’idea forte, come fu l’irruzione dei reality. Ora troviamo uno spezzatino di storie di mestieri pericolosi, strani ma veri e un’epidemia di programmi sul cibo e la ricerca/sistemazione della casa.
I talent show cominciano a essere tanti e si giocano più che sul format sul casting dei giudici. Gli antichi generi ospedaliero e poliziesco tengono botta ma non producono più rivoluzione. Insomma si galleggia in un pensiero debole televisivo generalista, concedendo sempre più spazio a canali come AMC, HBO e Showtime che non dovendo riempire l’arco della giornata ma solo il primetime, possono permettersi di concentrarsi sulle serie che in questi anni abbiamo amato, ormai quasi tutte loro (con poche eccezioni come The Good Wife).
Procter and Gamble, la multinazionale dei detersivi e non solo, è il termometro del gradimento televisivo e, nonostante una flessione del 5,1 per cento, nel 2011 ha continuato ad esser il più grande investitore (1,7 miliardi di dollari) nella tv ma ha anche cominciato ad andare sui nuovi canali della rete. La televisione che verrà un giorno e non si chiamerà più nemmeno televisione. Intanto Olimpiadi e elezioni per la Casa Bianca ridisegnano dei palinsesti ansimanti. Almeno fino a novembre. Poi servirebbe un’idea forte alla televisione generalista. Altrimenti proseguirà la spalmatura sui mille canali delle tivù di nicchia. Che è un bene e non un male.