Chiudere la guerra, come avrebbe fatto Togliatti
Avevo creduto che il voto del 24-25 febbraio avesse finalmente chiuso la fallimentare seconda repubblica. Mi ero sbagliato. La seconda repubblica è viva e vegeta e continua a farci del male. E allora proviamo a trattarla come un conflitto militare di cui non si vede la fine. I conflitti di questo tipo si risolvono in due modi: con la guerra permanente o con l’armistizio.
La prima soluzione è quella che abbiamo (hanno) perseguito con grande tenacia negli ultimi vent’anni, arrivando dove siamo arrivati.
La seconda soluzione – l’armistizio – non nasce dai buoni sentimenti, ma dalla capacità delle parti in conflitto di concludere le ostilità con il riconoscimento reciproco delle proprie diverse identità e delle proprie diverse ragioni. Tra pochi giorni avremo a portata di mano l’occasione per compiere questo passo, con l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. Tutti diciamo e diremo che occorre un Presidente “condiviso”, che sia “sopra le parti”, che goda fin da subito della “più ampia legittimazione”. Ma forse potremmo dire qualcosa di più.
Servirebbe un Presidente che possa essere strumento di riconoscimento e di legittimazione di quella parte dell’elettorato italiano che fino ad oggi ha vissuto la (seconda) Repubblica con il sospetto dell’ostilità e con la sensazione dell’estraneità. Perché questo è quanto è accaduto con gli elettori di centrodestra in tutti questi anni. Essi hanno stabilmente rappresentato almeno un terzo del totale, sono stati spesso in maggioranza, hanno espresso per buona parte di questo ventennio la guida del governo. Eppure hanno continuato a guardare alle istituzioni repubblicane come ad un campo dal quale erano tenuti a margine e verso le quali era legittimo e opportuno coltivare il sospetto dell’esclusione e l’ambizione della conquista. Il tratto sovversivo del berlusconismo nasce anche da qui, non soltanto dal profilo antropologico del suo fondatore. E anche per questo Berlusconi ha potuto alternativamente alimentare e beneficiarsi del mito della propria estraneità alle istituzioni della seconda repubblica.
L’elezione del nuovo Presidente potrebbe essere la grande occasione storica per includere finalmente e integralmente l’elettorato di centrodestra nelle istituzioni repubblicane, togliendo qualsiasi residuo alibi di estraneità e chiudendo di fatto la Seconda Repubblica. Ma perché questo accada dovrebbe essere lo stesso centrosinistra a cogliere l’occasione di contribuire ad eleggere una figura che non provenga dalle proprie fila. Ovvero a dare alla Repubblica un Presidente che non sia riconducibile al Partito Democratico e che abbia anche il voto dei “moderati” italiani (o comunque si voglia chiamare quella parte politica che non è il centrosinistra). Perché i Presidenti che si sono succeduti dal 1992 ad oggi, pur essendo figure di straordinaria qualità politica e istituzionale, sono stati tutti di fatto espressione di una sola parte del campo politico italiano.
Conosco e rispetto gran parte delle obiezioni che possono essere mosse a questa proposta. Dalla scarsità nel centrodestra di figure effettivamente candidabili al Quirinale (volendo escludere Berlusconi, come certamente escluderei), all’assurda pretesa del Cavaliere di avere al Quirinale qualcuno che abbia l’unica funzione di garantirgli incolumità penale e politica, fino al diritto dell’Assemblea dei Grandi Elettori di scegliere il Presidente sulla base di una semplice maggioranza numerica. E tuttavia questi mesi ci raccontano di un passaggio storico della nostra vita nazionale e dell’opportunità di affrontarlo con strumenti adeguati.
Tra i quali ve n’è uno – l’elezione del nuovo Presidente come armistizio tra le parti che si sono combattute nel corso della Seconda Repubblica – che forse non sarebbe dispiaciuto a Palmiro Togliatti e a tutti coloro che si sono mostrati capaci di includere i nemici in un tessuto comune per evitare che la casa crollasse. Anche per questo l’elezione al Quirinale di una figura che non fosse espressione del centrosinistra potrebbe essere una grande opportunitá per lo stesso Partito Democratico di uscire dal vicolo nel quale si è cacciato.