Di generazione in Generazione
Se fossi Antonio D’Orrico scriverei che quello di Simone Lenzi è un folgorante capolavoro destinato a cambiare una volta per tutte la letteratura italiana. Evidentemente non sono D’Orrico, e neanche un critico letterario. Eppure “La generazione” di Simone Lenzi, in libreria dal 13 marzo per Dalai (pp.155, €15), è un romanzo bello e importante da leggere con attenzione.
Un libro bello, perché la storia di un uomo e di una donna che conducono una vita coniugale del tutto normale – tranne che per l’ombra di una gravidanza che non arriva – è raccontata con una lingua particolarmente fortunata e con la leggerezza solo apparente di chi sa maneggiare il vuoto che si accumula nel conto delle assenze e delle occasioni mancate. Un libro importante, perché capovolge il punto di vista dal quale siamo abituati a guardare al tema della difficoltà del concepimento. Non più quello esclusivamente femminile del tempo biologico che passa ma quello maschile dell’amore verso la propria donna e della responsabilità di essere all’altezza di quanto ci si aspetta da un uomo, tanto nel riprodursi quanto nel produrre sostentamento. Ma il libro di Lenzi è anche un libro generazionale del tutto originale, per quanto la “generazione” del titolo sia l’atto del generare e non la classe d’età dell’autore. Il protagonista portiere di notte è un bell’esempio di quella sotto-occupazione intellettuale da cui siamo circondati, un maestro di parole che si muove con sapienza tra le biblioteche digitali ma che è costretto ad una vita di orari (e pensieri) al contrario. Eppure in queste pagine non c’è alcun pedagogismo politico, nessun ditino alzato contro “la sistematizzazione della provvisorietà lavorativa” o il “neoliberismo epidemia dell’Occidente”.
Simone Lenzi ha circa quarant’anni ma non è evidentemente un “Trenta-Quaranta” né si sente investito della responsabilità di rimettere le braghe al mondo come un qualunque TQ, ex cannibale o esponente del nuovo realismo. Più semplicemente, ha creato un personaggio che guarda quel mondo e lo attraversa senza lasciare un figlio dietro di sé. E questo basta a darci una storia imperdibile. Scrivendo del libro di Lenzi devo tuttavia confessare un piccolo conflitto d’interesse. Con l’autore ho condiviso una parte importante dell’adolescenza, quella più creativa e velleitaria, quando Simone e Luca Faggella imitavano Morrissey e Ian Curtis e io credevo di suonare i tamburi quasi come John Bonham Bonzo. Poi io ho saggiamente lasciato i tamburi mentre Lenzi e Faggella hanno continuato a fare (molto bene) i musicisti, e i Virginiana Miller di Simone sono stati e rimangono tra i fenomeni più appassionanti della scena indipendente italiana. Come capita a tutti gli ex adolescenti, ci siamo persi e seguiti da lontano. E oggi sono contento di averlo ritrovato anche come uno scrittore di grande qualità.