Top Gear oltre Jeremy Clarkson e viceversa
È andata come doveva, viste le premesse: il network televisivo britannico BBC ha annunciato che non rinnoverà il contratto in scadenza di Jeremy Clarkson, il principale conduttore di quello che è probabilmente il programma televisivo più conosciuto al mondo, Top Gear.
Per un ente semi-pubblico ed equilibrato (per non dire politically correct) come la BBC, una volta verificati i fatti, la decisione era quasi obbligata: puoi anche essere il nostro uomo di punta, ma se prendi a pugni un produttore, per giunta per un motivo stupido come una bistecca, hai finito di lavorare per noi. Se per un attimo togliamo dal tavolo i nomi, i soldi e la notorietà, la cosa fila perfettamente: un’azienda di pubblico servizio non rinnova il contratto a un proprio dipendente perché ha aggredito fisicamente e verbalmente un altro dipendente per futili motivi. Semplice, no?
Se però rimettiamo tutto sul tavolo, la cosa diventa un po’ più complicata, anche perché:
1. Jeremy Clarkson è Top Gear, ma non solo Top Gear
2. Top Gear è della BBC ma non è la BBC
3. Top Gear, così com’è ora, non può esistere fuori dalla BBC
Provo a spiegare perché la vedo così e perché credo che la cacciata di Clarkson rischi di segnare la fine più che di Top Gear in sé, del formato del programma.
Non credo ci siano dubbi sul fatto che Jeremy Clarkson sia l’anima di Top Gear: è stato lui, insieme al produttore esecutivo e amico di una vita Andy Wilman, a “inventare” nel 2002 il nuovo formato; quello descritto da Clarkson stesso come «tre uomini di mezza età che cadono a pezzi mentre dicono cose senza senso sulle automobili». Fino a quel momento Top Gear era stato un programma televisivo automobilistico valido, ma come tanti altri: gente seria e preparata (Clarkson compreso, ma in versione “depotenziata”) prova auto nuove e ti dice come vanno. Ecco, Clarkson e Wilman hanno buttato dalla finestra ogni parvenza di quello che gli inglesi chiamano consumer advice (consigli per il consumatore) e hanno trasformato Top Gear in ciò che è stato fino a poche settimane fa: nessuna pretesa giornalistica di sorta; solo puro e semplice intrattenimento, con le automobili e la passione per le automobili a fare da pretesto per viaggi spettacolari, improbabili missioni per “salvare l’Inghilterra” o dimostrare la superiorità dell’auto sul trasporto pubblico, traversi in pista e gag dei tre conduttori.
Il punto forte di Top Gear, da sempre, è stato l’autoironia: le battute sopra le righe, le prese in giro reciproche, le roulotte che esplodevano, la missione al polo nord, i modelli di auto dati alle fiamme perché odiati dai presentatori erano il chiaro manifesto della ricetta di base del programma, l’intrattenimento. Credo che nessuno al mondo abbia mai scelto di comprare un’auto basandosi su un test del programma, anche perché di auto “normali” ne venivano provate ben poche e quelle che comparivano erano inserite all’interno di sfide assolutamente prive di senso o utilità pratica. Mi viene in mente la volta che James May infilò un cane San Bernardo in una minuscola Toyota iQ. Oppure quella in cui invitarono Bruce Willis solo perché premesse il clacson di una Kia cee’d. Per dire.
La volontà d’intrattenimento puro e di non prendersi sul serio, d’altronde, erano continuamente rimarcate dagli stessi conduttori, diventati col tempo tre stereotipi del maschio medio: Jeremy, l’uomo di mezza età eccessivo in tutto, ossessionato dalle dimensioni e dalla potenza; Richard, il sempliciotto iperattivo innamorato degli USA e delle auto “grezze”; James, il calmo e noioso saputello che guarda gli altri due con sufficienza. Per certi versi pura commedia dell’arte, che ha funzionato a meraviglia nel caso specifico, ma che non è replicabile “in laboratorio”: il pessimo clone statunitense è la dimostrazione che non bastano tre maschi con la patente e un budget monumentale per ricreare l’atmosfera dell’originale.
Con gli anni Top Gear ha guadagnato e fatto guadagnare alla BBC pubblico e quindi denaro, pur restando una maleducata e rumorosa anomalia all’interno di una realtà pluralista, ingessata e vagamente radical chic (diciamolo: buonista) come la TV pubblica inglese. La BBC ha tollerato i “discoli” di Top Gear perché portavano tanti, tanti soldi, mentre dall’altra parte il produttore Andy Wilman ha saputo gestire l’autonomia accordata al programma facendo da scudo ai tre conduttori e adottando una tattica che ha portato sia il successo, che i problemi: noi facciamo e diciamo quello che ci pare, poi al massimo chiediamo scusa.
Questo equilibrio molto particolare ha retto per oltre un decennio: ho visto ogni singola puntata del “nuovo” Top Gear e devo ammettere che molti dei polveroni sollevati da Clarkson, fuori dal Regno Unito fanno sorridere. Chi prenderebbe sul serio uno che dice cose del tipo «La vita del camionista è molto faticosa: cambia marcia, cambia marcia, controlla gli specchietti, ammazza una prostituta, cambia marcia, specchietti, marcia, prostituta…»? Le sue frequenti battute contro gli ambientalisti, i ciclisti, i camper, le roulotte, gli autovelox, gli orsi polari, la religione, gli omosessuali – insomma qualunque categoria intoccabile vi venga in mente – innescavano sempre lo stesso siparietto: battuta di Clarkson (scritta da lui, Wilman o dallo script editor Richard Porter, perché non dimenticate che un programma così ha anche degli autori), qualche lettera di protesta alla BBC, tabloid che gonfiavano il caso, scuse della BBC e dissociazione del network da quanto detto nel programma.
Le battute grevi, “di pancia” e i luoghi comuni populisti dispensati su ogni possibile nazione (i Francesi sanno solo mangiare formaggio e perdere le guerre, i tedeschi vogliono invadere la Polonia, i Messicani sono tutti fannulloni, il Belgio è inutile, gli italiani sono matti e senza regole) hanno diviso il pubblico in due categorie, quelli che amano Top Gear e quelli che non lo sopportano. I protagonisti del programma, però, non hanno mai smesso di ripetere che era tutto uno scherzo, un’ora d’intrattenimento in salsa automobilistica da guardare in famiglia sul divano, per farsi una risata. E per molti, per molto tempo è stato così.
Per anni Clarkson è stato considerato un ottimo presentatore, un uomo di punta della BBC, che ogni tanto si concedeva una battuta da vecchio, ricco e borioso conservatore nel suo programma di maggior successo. Perché Jeremy Clarkson, così come James May e Richard Hammond, erano presentatori della BBC e quindi hanno condotto anche altri programmi, oltre a Top Gear. Tutti di qualità eccellente e senza eccessi di sorta. Vi consiglio di guardare i documentari realizzati da Clarkson, o le Toy Stories e il Man Lab di James May, oppure i programmi scientifici di Richard Hammond; televisione di ottimo livello, ricca di cura, dettagli e soprattutto inventiva.
I problemi di Clarkson, quelli veri, sono iniziati nell’ultimo anno: prima la battuta razzista nello speciale in Birmania, in cui il presentatore giocava sul doppio senso della parola slope, che in inglese significa “pendenza”, ma è anche un dispregiativo che indica una persona del Sudest asiatico; poi il caso argentino, in cui l’auto di Clarkson aveva una targa che poteva ricordare la guerra delle Falkland tra UK e Argentina del 1982; infine la rissa col produttore Oisin Tymon.
La sassaiola subita dagli operatori di Top Gear in Argentina – nonostante tutti abbiano negato che il rimando della targa fosse intenzionale – ha colmato la misura, mentre l’aggressione fisica ha fatto definitivamente traboccare il vaso: troppo per la BBC. Anche di fronte alla montagna di denaro generata da Top Gear. Bisogna aggiungere che in una nazione fatta di buone maniere, classismo e tabloid come il Regno Unito, il personaggio di Jeremy Clarkson è sempre stato sotto attacco, specie perché ricco, populista e conservatore. Ultimamente poi – ma questo non vale certo come scusa – pare che Clarkson stia attraversando un momento personale difficile, dovuto alla separazione dalla moglie-manager Francie, colei che lo ha trasformato nel personaggio televisivo eccentrico che è oggi, dicono.
L’addio della BBC a Clarkson apre innumerevoli scenari possibili, che riguardano il suo futuro e quello dei suoi colleghi James May e Richard Hammond. Questi ultimi, in modo più o meno esplicito, hanno già detto che non continueranno il programma senza Jeremy; che si tratti di lealtà tra amici o convenienza commerciale non importa, entrambi sanno che il loro trio vale più delle singole parti se rimane compatto e che Clarkson è indubbiamente la parte di maggior peso.
Ora la BBC dovrà inventarsi un nuovo Top Gear, che sia allo stesso tempo conforme alla propria linea editoriale e capace di attrarre un pubblico enorme come quello del passato. Non ci riuscirà: Top Gear piaceva proprio perché scorretto, grossolano, a tratti volgare, paradossale, forzato, ma comunque divertente e spettacolare. Una versione pulita, ordinata e (per carità) magari informativa del programma lo confinerebbe a un’audience molto più ristretta, di soli appassionati. E poi il paragone con il trio Clarkson – May – Hammond resterà sempre impietoso. Nei secoli dei secoli.
C’è però un problema anche per il trio: i conduttori di Top Gear potevano permettersi di dire e fare quello che volevano con le auto proprio perché il programma era della BBC. Essendo un network semi-pubblico, la BBC ha offerto in questi anni al gruppo di Top Gear una libertà editoriale che le reti private, la cui sopravvivenza dipende dagli inserzionisti pubblicitari, semplicemente non si possono permettere. Un network commerciale non può investire decine di milioni di euro in un programma, con la quasi certezza che questo insulterà metà degli inserzionisti che lo finanziano. A esplicita domanda, infatti, la maggior parte dei canali commerciali di lingua inglese – britannici e non – ha subito smentito l’intenzione di offrire un contratto a Jeremy Clarkson.
Per questi motivi – e perché il format di Top Gear negli ultimi anni si era fatto un po’ stanco, ripetitivo – il divorzio tra BBC e Jeremy Clarkson mi pare sempre più la fine di un’era. Certo, il carrozzone sarebbe potuto andare avanti per altri tre anni, ma lo stesso Clarkson si è dichiarato in fondo “sollevato” dalla fine delle tensioni tra lui e la BBC. A Top Gear resta il merito di aver avvicinato alla passione per le auto milioni di giovani e di aver dimostrato che con le auto è possibile fare intrattenimento e spettacolo a livelli mai visti prima.
Top Gear ha saputo trasfigurare l’auto, il viaggio, l’amicizia, l’inventiva umana in un linguaggio universale, condito con tanto, sano, scomodo humour. Ha saputo divertire il bambino di otto anni che è in noi, quello che ride davanti a cose che vengono martellate, saltano o esplodono e dice le parolacce. Quello che vuole attraversare la Manica con una cabriolet a vela e quello che crede di poter collegare un motore V8 a un frullatore per frantumare i mattoni. Il problema è che il bambinone a capo del gruppo di amici, Jeremy Clarkson, a un certo punto ha cominciato a combinare pasticci da adulto. Forse è cresciuto, invecchiato. In ogni caso questa volta auntie BBC, la zietta come la chiamano gli inglesi, non gliel’ha fatta passare liscia e lo ha accompagnato alla porta.
Non c’è dubbio che, un giorno, questo Top Gear sarebbe finito. Così com’è certo che per Jeremy Clarkson, James May e Richard Hammond non si prospetta un futuro di stenti, povertà e disoccupazione. Dispiace solo che sia finita così, d’improvviso, a metà di una stagione. In una parola: male.
Foto di AP Photo/BBC Worldwide