Marchionne, la solitudine del manager e dei lavoratori
L’ho intitolata come un romanzo di Manuel Vázquez Montalbán questa riflessione, la solitudine del manager (La soledad del manager, in lingua originale), perché nei giorni scorsi Sergio Marchionne – il CEO di Fiat Chrysler Automobiles – durante un’intervista all’Automotive News World Congress si è lasciato scappare un’affermazione di quelle che non sai se siano vere o no, e se sì quanto a fondo vadano.
La frase in questione è: “If you’re a CEO, you have to give up the notion of happiness“. Che tradotta suona tipo: Se sei un amministratore delegato, devi rinunciare al concetto di felicità. Si riferiva a se stesso? O alla relazione con quelli intorno a lui, che nel 2018 dovranno (forse) prendere il suo posto? Durante l’intervista Marchionne ha detto che ha “meno di dieci persone” che potrebbero succedergli e che la sua eredità si misurerà sulla “qualità dei leaders che lascio dietro di me”.
Poco dopo, quasi rispondendo a questa specie di testamento precoce, il capo delle vendite FCA in America settentrionale Reid Bigland – un marcantonio canadese che sembra Bruce Willis con i capelli – ha invece detto che “nessuno può riempire le scarpe di Sergio” e che spera che Marchionne non vada da nessuna parte “per altri dieci anni, almeno”. Piaggeria tipica del sottoposto o sincero senso di gratitudine verso un uomo che ha preso un’azienda agonizzante e l’ha riconvertita in una realtà industriale che ha chiuso le vendite 2014 in USA con una crescita del 16 per cento? Cinquantasette mesi positivi di seguito, valori assoluti più alti dal 2006, “il costruttore con il tasso di crescita più elevato del Paese” dice Bigland nel comunicato stampa.
Io non so esattamente cosa penso di Sergio Marchionne. In genere, la mia considerazione di lui è sempre stata anticiclica rispetto a quella dell’opinione pubblica italiana e – per certi versi – anche di quella di settore. Di una cosa, però, sono abbastanza convinto: spesso in Italia “Serghio” o “Sergeeo” come lo chiamano gli anglosassoni – a questo proposito, una scena che ho trovato divertente: pochi giorni fa, al termine della conferenza stampa al Salone dell’Auto di Detroit, un reporter si è avvicinato a Marchionne e gli ha sussurrato: “Do this for me, pronounce your last name“. Fallo per me, pronuncia il tuo cognome – è ed è stato sostenuto o avversato per le ragioni sbagliate.
La relazione conflittuale tra Italia e Marchionne si è accesa ai tempi del piano industriale “Fabbrica Italia”, quello annunciato nell’aprile 2010 che nei quattro anni successivi avrebbe dovuto portare investimenti e produzione negli stabilimenti italiani. Di quel piano non si fece niente, perché l’anno dopo Fiat fece dietrofront su tutta la linea e invece di spendere soldi in un mercato che sarebbe collassato di lì a poco, tenne tutto fermo e lasciò a casa in cassa integrazione un sacco di operai. Marchionne fece bene o male a non investire denaro che Fiat a quei tempi non aveva?
E poi perché quel piano così ambizioso? Non credo per populismo, gli amministratori delegati non sono politici che si devono far eleggere promettendo miracoli. Piuttosto previsioni economiche sbagliate, un po’ troppa temerarietà. Forse eccesso di ego, quello che il CEO di FCA ha richiamato pochi giorni fa nella conferenza stampa a Detroit, riferendosi alle possibili fusioni tra gruppi automobilistici che sono ostacolate proprio dall’ego dei suoi colleghi, troppo legati alla propria posizione per rinunciarvi in favore degli interessi aziendali. Lezione imparata in altri termini sulla propria pelle?
Fatto sta che l’immobilismo di Marchionne ridusse all’osso la gamma Fiat e tenne ferme le fabbriche, scatenando le reazioni di sindacati (con le dovute distinzioni), politica e opinione pubblica che si schierarono in una battaglia tra chi stava con i lavoratori – e il Lavoro, con la L dell’enfasi maiuscola – e chi con Marchionne. Una battaglia cui il CEO non prese parte.
Lì, a me sembra, fu l’errore.
Perché invece di chiederci perché la Fiat non investisse in Italia, trasformammo i problemi di una nazione in una partita tra tifosi del libero mercato scagliati contro i privilegi sindacali e difensori dei diritti dei lavoratori. Dimenticando proprio i lavoratori. Dimenticando che i lavoratori quando lavorano producono qualcosa che viene venduto a qualcuno che ha i soldi per comprarlo. E che i lavoratori lavorano se ciò che producono è venduto a un prezzo profittevole. E che il profitto non dipende solo dai lavoratori, ma dal sistema (paese, continente, mondo) in cui i lavoratori lavorano. Il lavoro non è un’entità a sé, un concetto astratto, un totem. Il lavoro non è solo quello dell’articolo 1 della Costituzione della Repubblica Italiana, è anche quello dell’articolo 4 secondo cui “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”.
Della promozione di quali condizioni ci preoccupammo – e ci preoccupiamo ancora oggi – per rendere effettivamente profittevoli i lavoratori? I lavoratori, prima della Fiat o di Marchionne.
Un’altra domanda: Fiat avrebbe fatto bene a continuare a investire e produrre in Italia negli scorsi quattro anni? Alcune concorrenti che hanno adottato questa strategia oggi in Europa perdono centinaia di milioni (Ford), rinviano il ritorno all’utile di anno in anno (Opel) e alla lunga hanno dovuto chiudere stabilimenti e licenziare migliaia di lavoratori (varie), mentre Marchionne qualche giorno fa ha annunciato che quest’anno le operazioni europee di Fiat Chrysler potrebbero raggiungere il pareggio.
Forse continuare a produrre avrebbe fatto bene all’Italia, che avrebbe risparmiato i soldi pubblici della cassa integrazione, di certo ai lavoratori, ma per quanto?
C’è anche da chiedersi se la cassa integrazione – che priva i lavoratori del loro tratto definitore, il lavorare – sia stato il miglior tipo d’intervento pubblico o se non avremmo fatto meglio a erogare prestiti con tempistiche e finalità definite, come quelli fatti negli Stati Uniti d’America dal governo Obama nel 2009. Senza dimenticare che in altri stati europei come Francia e Germania i governi detengono il 14-15 per cento di aziende come PSA Peugeot-Citroën, Renault o Volkswagen e tramite queste quote in qualche modo ne influenzano le politiche industriali. Orrore dei partigiani del libero mercato.
Il piano industriale FCA per il quadriennio 2014-2018 presentato lo scorso 6 maggio 2014 da Sergio Marchionne è ambizioso, secondo molti analisti a tratti anche troppo, ma lo stabilimento di Melfi ha già ripreso ad assumere e produrre a pieno regime, mentre a Cassino e Mirafiori le nuove linee di assemblaggio sono quasi pronte. Se i lavoratori in cassa integrazione rientreranno nelle fabbriche non sarà certo per merito dell’Italia, che nel frattempo non ha fatto nessuna (vera) riforma di burocrazia, giustizia o fisco per riconquistare competitività e per ridare finalmente lavoro ai lavoratori. Non sarà neppure merito del Jobs Act: i lavoratori si assumono se c’è qualcosa di profittevole da costruire e vendere, non perché costano meno e basta.
La competitività verrà dalle mutate condizioni dei mercati mondiali – disposti a comprare berline Alfa Romeo, Jeep Renegade, Fiat 500X e SUV Maserati – e da quelle di FCA, che nel frattempo è cambiata, è diventata un gruppo globale, si è trasferita e ora ha la possibilità di fare profitto anche se in Italia il costo della produzione (non solo del lavoro o dei lavoratori) è più alto che altrove. E per riuscire a fare profitto, in Italia Fiat Chrysler produrrà modelli di alta gamma, in grado di garantire margini superiori rispetto alle utilitarie o ai modelli di fascia media, e queste auto premium venderanno se valide e se il mondo continuerà a volerle e avere soldi per comprarle. Perché questa volta, come mi ha confermato una fonte la settimana scorsa, “le auto ci sono davvero, non come l’altra volta”. Tutto questo si sarebbe potuto verificare alcuni anni fa? Non in queste condizioni. Se avessimo fatto le dovute riforme, magari.
Sergio Marchionne – se davvero come dice lascerà il gruppo Fiat Chrysler nel 2018 – forse non sarà più in carica quando tutte queste premesse daranno risultati e sarà stato sostituito dalla sua eredità: da un americano, un francese o uno qualunque di quei meno-di-dieci dietro di lui. Se non sarà più amministratore delegato, però, potrà permettersi il lusso della felicità di fronte ai “suoi” risultati. Ottenuti insieme e grazie ai lavoratori. Nonostante un’Italia immobile, che invece di affrontare i propri problemi e quelli dei lavoratori, li ha nascosti sotto il tappeto di una sterile e comoda battaglia pro o contro un solo uomo.
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