Che ha detto Hawking sui buchi neri?
Stephen Hawking e i buchi neri sono una delle coppie di fatto della scienza moderna e della cultura popolare, un po’ come Marie Curie e il radio, Tesla e le saette, e Doc Brown e il flusso canalizzatore. Ha suscitato quindi una comprensibile eccitazione la notizia che Hawking avrebbe detto, di recente, che i buchi neri non esistono. Lo ha detto veramente? Sì, ma la cosa è un po’ più complicata.
Per chiarire la faccenda dobbiamo fare un passo indietro — o meglio, avanti, in direzione dell’orizzonte di un buco nero, ovvero il confine da cui, una volta entrati, non si può più uscire. Cosa succederebbe allo sfortunato che si trovasse a precipitare verso un buco nero (che, ricordiamolo, secondo la teoria della relatività generale di Einstein è un oggetto che si produrrebbe quando la materia viene compressa al di sopra di una certa densità) nell’istante in cui egli varcasse la soglia dell’orizzonte? Assolutamente niente. Il tapino non si renderebbe conto di aver varcato una soglia, anche se da quel punto in poi non potrebbe più invertire la rotta e tornare sui propri passi (in più, da lì continuerebbe inesorabilmente a precipitare verso un pozzo gravitazionale senza fondo, venendo stirato come uno spaghetto e morendo di morte orribile).
Tutto questo, fintanto che si tiene conto solo della gravità. Ma le cose cambiano quando si considerano anche gli effetti della meccanica quantistica. Fu proprio Hawking, una quarantina di anni fa, a rendersi conto che sulla superficie dell’orizzonte possono succedere cose strane, a livello microscopico. La natura ammette la possibilità di creare dal nulla coppie di particelle e anti-particelle — un trucco magico che si può fare a costo zero, per così dire. In effetti, la cosa avviene in continuazione, innumerevoli volte, in qualunque regione di spazio vuoto: quindi, anche in prossimità dell’orizzonte di un buco nero. Hawking ragionò che, da quelle parti, una volta emerse dal nulla, le due componenti di una coppia particella-antiparticella avrebbero potuto seguire destini opposti: una cadere nell’orizzonte, andando persa per sempre, l’altra scappare verso l’esterno. Il risultato netto del processo, secondo Hawking, sarebbe stato che dall’orizzonte sarebbe apparsa fuoriuscire radiazione, un risultato contrario all’idea che nulla potesse emergere da un buco nero. Anzi, in realtà, col tempo il buco nero avrebbe finito per “evaporare”: l’orizzonte si sarebbe rimpicciolito sempre di più, fino a sparire nel nulla.
Che fine avrebbe fatto, in questo caso, la materia che era stata precedentemente inghiottita dal buco nero? Secondo Hawking, sarebbe stata risputata fuori sotto forma di radiazione: ma la cosa era problematica, perché la radiazione in questione era una specie di rumore completamente casuale, e questo sembrava implicare che tutta l’informazione caduta oltre l’orizzonte era ormai andata persa per sempre. Sembra una cosa da niente, ma purtroppo la perdita di informazione è incompatibile con tutto quello che sappiamo sulla meccanica quantistica. Da allora, dibattiti a non finire tra Hawking e il resto del mondo (che fine fa l’informazione che cade in un buco nero?), con tanto di scommesse su come si sarebbe risolta la faccenda (Hawking era convinto che l’informazione andasse persa). Nel 2004 il dilemma sembrò definitivamente risolto in favore della conservazione dell’informazione (e Hawking ammise di aver perso la scommessa).
Ancora un passo avanti, questa volta a un paio di anni fa, quando Joe Polchinski, un fisico teorico dell’Università di Santa Barbara in California, si è imbattuto in un risultato inaspettato. Si poteva riconciliare l’evaporazione dei buchi neri con la conservazione dell’informazione, sì, ma in cambio di rinunciare alla vecchia storia secondo cui attraversando l’orizzonte non ci si accorge di nulla. Secondo Polchinski, in realtà, l’orizzonte apparirebbe, dall’esterno, come una regione di energia terribilmente alta (un “firewall”, un muro di fuoco) e il meschino che provasse ad attraversarla verrebbe incenerito all’istante. Vabbe’, che sarà mai una fiammata purificatrice, pur di evitare la perdita di informazione e salvare la meccanica quantistica? Be’, purtroppo la cosa si scontra con la teoria della relatività generale, secondo cui un osservatore in caduta libera in un campo gravitazionale non dovrebbe notare alcuna differenza rispetto a uno galleggiante nel vuoto. Le barriere fiammeggianti non sono ammesse. Uff. Come se ne esce?
Eh, non se ne esce. Non finora, almeno. Negli ultimi due anni, i fisici teorici si sono scornati con la questione del firewall — chi ci crede, chi non ci crede, chi pensa che sia un errore di calcolo, chi che sia un risultato che dice qualcosa di profondo sul legame tra gravità e teoria quantistica, insomma un gran casino. E finalmente, da qui, arriviamo all’ultima uscita di Hawking. Il quale, per evitare la rogna del firewall, ha ipotizzato che forse, dopotutto, l’orizzonte non si forma mai, in realtà. Forse, congettura Hawking, la storia che ci siamo raccontati finora è troppo semplice: nella realtà, il collasso che porta alla formazione di un buco nero potrebbe essere un processo caotico, tale da non dare origine a un orizzonte con una superficie netta, ma piuttosto a una regione turbolenta, da cui l’informazione potrebbe riemergere. Francamente, Hawking non ha elaborato in dettaglio l’idea, e ci sarà da capire dove porterà — ma intanto il fatto che il suo articolo contenga la frase “l’assenza dell’orizzonte significa che non ci sono i buchi neri” ha attirato l’attenzione. Forse, però, sarebbe più corretto dire che, se Hawking avesse ragione, i buchi neri ci sarebbero ancora, ma non sarebbero quelli che credevamo.