La Società della Terra Piatta
Prima di tutto, una confessione: quando ero più giovane, al liceo, ogni tanto leggevo Martin Mystère. Sì, lo so. Però era divertente e, a differenza di Voyager, si capiva chiaramente che era tutta fantasia. Comunque, in uno di quegli albi – anzi, credo fosse un almanacco – lessi che in America esisteva una Società della Terra Piatta. Si trattava, se non fosse chiaro, di un gruppo di persone convinte che la Terra fosse piatta. (Eravamo nella seconda metà degli anni ’80 del XX secolo, lo dico per mettere le cose nel giusto contesto storico). Lessi anche che questa associazione spediva, a chi ne facesse richiesta, del materiale in grado di provare che la Terra, era, in effetti, piatta. Voi capite che la curiosità era forte.
Io e un mio amico ci armammo di carta e penna (non c’era ancora internet, si faceva così) e scrivemmo. Dopo un po’ di tempo arrivò una busta. Non sono in grado, a distanza di quasi un quarto di secolo, di ricordare cosa ci fosse esattamente in quella busta (se l’è tenuta il mio amico, e poi ci siamo persi di vista). Un fumetto: mi ricordo un fumetto, se non sbaglio con i personaggi dei Peanuts, che era stato maldestramente adattato in modo che quei personaggi sostenessero la tesi che la terra fosse, appunto, piatta. Poi, poche paginette di propaganda, per lo più incentrate intorno all’idea che tutto quello che sapevamo, tutte le prove che avevamo raccolto, per esempio le foto dallo spazio che mostravano che la Terra è una sfera, erano fabbricate. Insomma, una cosa miserrima. Non si capiva, veramente, come una roba del genere potesse avere convinto un numero di persone grande abbastanza da fondare una società. Eppure.
In quegli stessi anni, incidentalmente, usciva anche Il Pendolo di Foucault, che lessi in due o tre giorni senza riuscire a staccarmi dalle pagine. Quel libro si faceva beffe proprio del tipo di sottocultura complottista che fornisce lo spunto per le storie di fantasia di Martin Mystère e in cui, uno si immagina, dovevano essersi formati anche i seguaci della Società della Terra Piatta. (Tra l’altro, nel Pendolo si parlava di un altro gruppo di persone che pensava che la Terra fosse sferica, sì, ma cava.) E insomma, da allora mi è rimasto il pallino: come mai molte persone credono a cose assurde e contrarie all’evidenza? E quali sono le caratteristiche che distinguono una vera ipotesi scientifica, anche audace e speculativa, da una pura e semplice – perdonate il tecnicismo – boiata?
Sono problemi affascinanti, e c’è gente che ha studiato la cosa in modo approfondito. Il primo è questione da psicologi e neuroscienziati, quindi non mi sbilancio. Diciamo che una delle cose che credo di aver capito è che il nostro cervello, se lo lasciamo fare, tende a funzionare così: prima si forma una convinzione, e poi si guarda intorno selezionando solo i fatti che sembrano confermarla. E siccome per ogni fatto esistono infinite spiegazioni sbagliate, è abbastanza semplice costruire una narrazione che leghi tutto in un quadro apparentemente coerente con i nostri pregiudizi, ma falso.
Sulla seconda questione (che i filosofi della scienza chiamano “problema della demarcazione”) credo di avere qualche esperienza diretta in più, se non altro perché faccio un lavoro che consiste in gran parte nel selezionare le ipotesi in base all’evidenza. Una delle qualità che uno scienziato finisce per sviluppare (o almeno, dovrebbe) è un certo fiuto per distinguere le idee che possono funzionare da quelle che non vanno da nessuna parte. Se si analizza questo atteggiamento mentale, che a un certo punto diventa automatico e istintivo, e lo si scompone nelle sue componenti fondamentali, ci si accorge che esistono dei criteri che chiunque potrebbe provare a fare propri, e a riutilizzare, per schivare le innumerevoli boiate potenziali che provano ogni giorno a catturare la nostra attenzione.
Forse, il principale criterio è questo: un genuino tentativo di spiegazione della realtà deve poter essere messo in discussione. Di più: deve fornire esso stesso agli avversari le armi che potrebbero decretare la propria sconfitta, dimostrandolo falso. Deve spiegare in modo convincente quello che già si sa, ma provare a illuminare aspetti ancora sconosciuti. Fare previsioni accurate e specifiche, che non erano mai state fatte prima. E rischiare di fallire di fronte a una prova contraria. Deve, insomma, non solo accettare la sfida dell’evidenza, ma incoraggiarla attivamente. Se poi l’evidenza contraria arriva, se si accumula e cresce col passare del tempo, a un certo punto bisogna dichiarare la resa.
Il caso volle che, quando poi arrivai all’esame di maturità, una delle tracce chiedesse di commentare una frase di Karl Popper, che era un filosofo della scienza austriaco. Popper sosteneva che se una teoria sembra inattaccabile c’è qualcosa che non va, e che se vogliamo davvero imparare qualcosa sul mondo, bisogna che il nostro tentativo di spiegazione sia falsificabile, ovvero che possa esistere qualche osservazione empirica in grado di confutarne le affermazioni. Sembrava fatta apposta, quella traccia. Diciamo che c’ero arrivato abbastanza preparato, perché, tra un Martin Mystère e un libro di Eco, mi ero posto il problema di come distinguere il vero dal falso, ed ero finito a leggere quello che ne aveva scritto Popper – che poi non è che siano tutti d’accordo con lui, per carità, però qualcosa di interessante in proposito lo ha detto. Mi piacerebbe tanto rileggere cosa ci scrissi, in quel tema. Comunque, la frase da commentare era questa: “Il cammino della scienza è lastricato di teorie abbandonate, che, un tempo, si consideravano dimostrate”. Che sembra una debolezza, e invece è una forza.
Ma andatelo a spiegare a quelli della Società della Terra Piatta. Loro non hanno abbandonato un bel niente: pensano che nel mondo, che è piatto, siano tutti d’accordo contro di loro, e che a loro non la si fa.