David Foster Wallace e l’educazione
Nel 2005 David Foster Wallace, che se fosse vivo oggi compirebbe 51 anni, tenne un discorso a un gruppo di neolaureati, discorso poi diventato celeberrimo tra gli ammiratori dello scrittore come “This is Water”. Il discorso iniziava, secondo tradizione, con una storiella:
“Ci sono questi due giovani pesci che nuotano e incontrano un pesce più vecchio che nuota in senso contrario e fa loro un cenno, dicendo: «Salve ragazzi, com’è l’acqua?» e i due giovani pesci continuano a nuotare per un po’ e alla fine uno di loro guarda l’altro e fa: «Che diavolo è l’acqua?»
Il senso della storiella era che le realtà più ovvie spesso sono anche le più difficili da vedere, proprio perché ci siamo immersi dalla nascita, come i pesci nell’acqua. Nel resto del discorso, DFW argomentava che forse il ruolo principale di una buona educazione è quello di andare oltre la prima impressione, di insegnarci a prestare attenzione e a capire come pensare e soprattutto a cosa:
“A essere giusto un po’ meno arrogante. Ad avere un po’ di consapevolezza critica di me stesso e delle mie certezze. Perché viene fuori che una percentuale enorme delle cose di cui io tendo a essere automaticamente certo è totalmente sbagliata e illusoria.”
La prima volta che ho letto il discorso dell’acqua mi sono chiesto se DFW, pur rivolgendosi a studenti di “liberal arts” (che nel mondo anglosassone sono prevalentemente, anche se non esclusivamente, studenti di materie artistiche o umanistiche), includesse nella sua idea di educazione anche la scienza. Non ho una risposta e ormai è troppo tardi per saperlo. Diciamo che mi piace pensare di sì: in fondo lui era uno che a un certo punto si era pure messo a studiare matematica e ci aveva scritto un libro. Comunque, a me sembra evidente che se c’è un’attività che ha sempre spinto l’umanità nella direzione auspicata da DFW è proprio la scienza. Anzi, si potrebbe dire che la funzione principale della scienza è proprio quella di darci un metodo per capire quali delle cose che ci sembrano corrette lo sono davvero, un metodo che ci aiuti ad andare oltre il senso comune e a liberarci dalle illusioni. La Terra ci sembra piatta e non lo è, ci sembra ferma al centro del cosmo e non lo è. Lo spazio ci sembra assoluto, il tempo ci sembra scorrere ugualmente per tutti, ma non è così. Persino la nostra così preziosa identità personale — stando a quello che vanno scoprendo i neuroscienziati — non è che una specie di illusione percettiva.
Gli scienziati, contrariamente all’idea diffusa e forse addirittura dominante che li dipinge come arroganti depositari di una conoscenza perfetta ed esclusiva, sono in realtà abituati prima di tutto a mettere in discussione le proprie convinzioni: e, siccome conoscono la propria umana debolezza e la tendenza ad autoingannarsi, hanno messo in piedi un sistema di contromisure per impedirsi, per quanto possibile, di cadere in errore — o quantomeno, visto che l’errore è inevitabile, per essere in grado di riconoscerlo e circoscriverlo. Sarebbe bello se la mentalità scientifica cominciasse a essere considerata, oltre che uno strumento per ottenere innovazione e progresso pratico, anche un requisito indispensabile per un’educazione che prepari davvero alla vita. Bertolt Brecht diceva che “lo scopo della scienza non è quello di aprire le porte a una saggezza infinita, ma di mettere un limite all’infinito errore”. Parole che potrebbero sovrapporsi a quelle di DFW.