Provare l’impossibile
Questa mattina, appena alzato, ho dato una scorsa agli articoli scientifici usciti nelle ultime ventiquattr’ore sul sito ArXiv. Lo faccio ogni giorno, e come ogni giorno ci ho trovato ipotesi e risultati su cose come la materia e l’energia oscure, i buchi neri, le lenti gravitazionali. C’era anche un articolo sui wormholes. Ordinaria amministrazione. Ma quando provo a guardarlo dall’esterno, mi rendo conto che il lavoro di uno scienziato può sembrare quello di esercitarsi a credere ad almeno sei cose impossibili prima di colazione, per citare la Regina Bianca di Alice attraverso lo specchio.
In effetti, la scienza ha fatto entrare nella nostra visione del mondo idee molto lontane dal senso comune. Il tempo scorre diversamente per osservatori che si muovono uno rispetto all’altro; lo spazio si deforma ovunque ci sia una massa; un elettrone è allo stesso tempo un’onda e una particella; esistono regioni dello spazio-tempo da cui nemmeno la luce riesce a fuggire; il 95% dell’universo è fatto di roba completamente diversa da quella di cui siamo fatti noi; e via così. Le idee della scienza sono diventate sempre più stupefacenti col passare del tempo, soprattutto a partire dall’inizio del ventesimo secolo. Ma non è che fossero meno sconcertanti duecento, trecento o quattrocento anni fa. Newton sentì il bisogno di giustificarsi per aver ipotizzato una misteriosa azione a distanza tra i corpi (la gravità). L’elettromagnetismo sembrò una cosa magica ai contemporanei di Maxwell (tanto da alimentare correnti di pensiero tecno-spiritualiste le cui scorie sono talvolta ancora visibili in certa sottocultura contemporanea). E provateci voi a spiegare a uno che non ne sa niente che la Terra si sposta a velocità pazzesca nello spazio.
La divulgazione fa molto leva sulla natura sorprendente delle scoperte scientifiche, ed è giusto. Il problema è che il senso di meraviglia che la scienza è in grado di suscitare può anche prestarsi a distorsioni pericolose se non è maneggiato con cura: per esempio accompagnandolo allo sforzo di far comprendere in cosa consiste il metodo scientifico. Tra le manipolazioni più fastidiose, almeno per me, c’è quella di chi cerca sponda per le proprie convinzioni irrazionali, provando a usare la scienza contro se stessa. L’argomento è più o meno questo: se gli scienziati credono in [riempire questo spazio con un’idea contraria all’intuizione ma ritenuta valida scientificamente] perché io non posso credere a [riempire questo spazio con un’idea priva di qualunque supporto o addirittura impossibile da mettere alla prova]. Esempio: “Se voi scienziati credete alla materia oscura, perché io non posso credere agli unicorni?”. Una variante dell’argomento introduce un elemento storico: “Voi scienziati avete creduto in passato a idee poi rivelatesi false: chi vi dice che non stiate sbagliando ancora (e che invece la mia idea che esistano le fatine del bosco sia corretta?)”
Queste argomentazioni non stanno in piedi innanzitutto da un punto di vista logico: perché, infatti, chi la pensa così dovrebbe cercare avallo nella scienza – che evidentemente non ritiene un metodo valido di comprensione del mondo? Che gliene importa di mettersi a confronto con gli scienziati – che ritiene, lo si legge tra le righe, ostili in modo preconcetto alle proprie idee preferite? Non potrebbe credere semplicemente agli unicorni o alle fatine del bosco o a quello che gli pare, essendo fieramente e coerentemente anti-scientifico? Ma a parte questo, chi argomenta in questo modo ha le idee molto confuse sul modo in cui funziona la scienza. Che, in realtà, è tutto il contrario di un sistema di credenze. Gli scienziati non “credono” nella materia oscura, o nell’esistenza dei buchi neri. In effetti, la scienza è un metodo sviluppatosi esattamente per filtrare le idee, per separare quelle valide da quelle sbagliate. Il lavoro degli scienziati è solo per metà quello di produrre ipotesi, di escogitare idee anche lontane dall’intuizione immediata. Per l’altra metà – in realtà la più importante – è quello di criticare queste idee, le proprie e quelle dei colleghi, e di sottoporle a verifiche sperimentali riproducibili da chiunque, che possano chiarire se sono valide o meno. Gli scienziati si sono dannati per cercare le prove dell’esistenza dei buchi neri o della materia oscura. Sta a chi crede negli unicorni o nelle fatine del bosco fare altrettanto. In caso contrario, è liberissimo di “credere” alla loro esistenza, ma non di pretendere che essa faccia parte di un sapere condiviso e accettato dal resto dell’umanità. Il fatto che la scienza abbia sbagliato in passato e continuerà a sbagliare in futuro non è un bug, è una feature, come si dice. Non è un difetto: è la natura stessa del metodo scientifico e la ragione del suo successo. È chi si aggrappa a idee basate unicamente sul sentito dire, cocciutamente immutabili di fronte alle evidenze contrarie, che dovrebbe farsi qualche domanda in più sulla loro effettiva consistenza.
Domattina, come ogni mattina, scorrerò la lista degli articoli apparsi nella notte su ArXiv. Metà del mio cervello si annoierà a vedere ancora risultati su roba come la materia oscura o i buchi neri. L’altra metà – spero quella migliore – starà andando alla caccia di indizi per migliorare o per confutare le idee e le ipotesi dei miei colleghi. È quella, la parte divertente del mio lavoro.