Un lusso o una necessità?
Nei periodi di ristrettezze economiche, bisogna continuare a investire nella ricerca scientifica, nella conoscenza, nella formazione? Per me la risposta è scontata: ovviamente sì. Ma conosco tante persone che, spesso in assoluta buona fede, sembrano fare un altro ragionamento. Queste attività, dicono, sono una specie di lusso. Capire come funziona il mondo, spiegarlo agli altri e soprattutto alle nuove generazioni, comporta costi che non sempre producono risultati immediati e tangibili, e che quindi non possiamo permetterci in tempi di crisi. Aspettiamo che passi la tempesta, stringiamo la cinghia e poi si vedrà.
Sembra un punto di vista innocuo, e sono sicuro che almeno alcuni tra coloro che lo condividono sono animati da un reale senso di responsabilità. D’altra parte, chi è che non rinuncerebbe a qualcosa di superfluo in un momento di difficoltà? Ma la questione è più sottile. Se si parte dal presupposto che in fondo la ricerca sia solo il trastullo di una casta privilegiata di curiosoni – un trastullo che si può concedere, con indulgente magnanimità, solo quando tutto il resto va a gonfie vele – allora è facile prevedere che le condizioni economiche non saranno mai abbastanza prospere da giustificare la concessione. Ci sarà sempre qualcosa di più urgente a cui pensare.
Mi ha molto colpito, a questo proposito, leggere nel libro di Enrico Bellone La scienza negata alcune citazioni di illustri politici italiani raccolte lungo un arco di oltre un secolo. Il Ministro dell’istruzione del lontano 1894, Guido Baccelli, sosteneva ad esempio che gli insegnamenti sperimentali dovevano avere «ciò che è strettamente necessario, e non di più; perché vexatio dat intellectum»: frase che fa ancora più impressione quando ci si rende conto che la citazione latina («la sofferenza induce a riflettere») viene dritta dritta dal manuale dell’inquisitore Bernardo Gui. Ancora, Alcide De Gasperi, nel 1946, sosteneva che la scienza, per carità, era importantissima per lo spirito degli italiani, ma che visti gli «stenti e le privazioni» di cui soffriva il popolo, «parrebbe ironia parlargli di cultura e ricerca scientifica». Più meno simultaneamente, Luigi Einaudi – mentre nazioni provate almeno quanto la nostra dalla guerra appena terminata facevano scelte strategiche di ben altro tenore – negò i finanziamenti urgenti per la ricerca giustificando la scelta con «l’enorme vuoto che già si verifica nel bilancio dello Stato». E così via, fino ai giorni nostri, guidati da una visione in genere miope e talvolta anche furbastra (come definire, ad esempio, l’illusione di potersi giovare con poco ritardo e a costo zero di avanzamenti scientifici e tecnologici finanziati e realizzati all’estero?). “Cronaca di un disastro programmato”, secondo l’amara definizione di Bellone.
Insomma, sbaglia chi pensa che ridurre i finanziamenti alla ricerca nel nostro paese sia una misura sporadica, dettata unicamente da emergenze eccezionali. Al contrario, essa riflette purtroppo una precisa e duratura visione della società, un indirizzo politico che prescinde dalle situazioni contingenti e che ha le sue radici nella mancata comprensione dei meccanismi di funzionamento della scienza e nella scarsa considerazione per il valore a lungo termine della ricerca. In Italia, i tempi non sono mai stati considerati abbastanza favorevoli dal punto di vista economico per investire con convinzione nella scienza. E allora, piuttosto che aspettare momenti propizi che non verranno mai, bisognerebbe cambiare mentalità, e capire che la ricerca non è un lusso, ma un bene irrinunciabile.