La paura del futuro (e le leggi della fisica)
Qualche giorno fa, Francesco Piccolo ha scritto un bel pezzo a proposito della resistenza alle novità, criticando l’automatismo mentale per cui, a molte persone, i vecchi tempi sembrano sempre migliori del presente – presente che a sua volta è, possiamo prevederlo con certezza, molto meglio dei tempi che devono ancora arrivare. Il punto di partenza dell’articolo di Piccolo era il successo di The Artist, film ambientato ai tempi del passaggio dal cinema muto al sonoro, e a sua volta realizzato proprio con le modalità di una volta: muto, cioè, e in bianco e nero.
Si potrebbe contrapporre alla visione nostalgica di The Artist quella disincantata di un altro successo cinematografico recente: Midnight in Paris, di Woody Allen. Lì, il rimpianto per i bei tempi andati si trasforma nel corso del film nella consapevolezza che ogni epoca storica è sembrata ugualmente difettosa a chi si è trovato a viverla. Lamentarsi del presente, temere il futuro e rifugiarsi nel passato sembrano atteggiamenti universali, ma piuttosto inutili.
Comunque, mentre leggevo l’articolo di Piccolo, pensavo a possibili spiegazioni scientifiche per la paura del nuovo e per l’attaccamento emotivo ai tempi passati. (Deformazione professionale, che ci volete fare.) E insomma: perché sembra così naturale, per molti esseri umani, provare nostalgia per l’età dell’oro? Siamo ambivalenti: da un lato, come specie, sentiamo l’urgenza di esplorare, comprendere e inventare cose nuove. Dall’altro, dentro di noi c’è una continua paura dell’ignoto. Un biologo evoluzionista potrebbe certamente spiegare che esistono forti vantaggi selettivi in entrambi i comportamenti. Se non ti guardi intorno e non vai in cerca di nuove fonti di cibo, la tua sopravvivenza è a rischio. D’altra parte, una volta trovata una nicchia stabile e ben protetta, può essere svantaggioso abbandonarla per qualcosa di incerto.
Noi fisici, però, abbiamo il vizio di andare in cerca di spiegazioni ancora più fondamentali. E allora mi chiedo se per caso la nostalgia per il passato non sia in qualche modo legata al famigerato secondo principio della termodinamica: quello secondo cui l’entropia (ovvero, per semplificare, il disordine) di un sistema isolato non può diminuire con il passare del tempo. È il principio che è alla base della percezione di una direzione nello scorrere del tempo, una direzione che va dal passato verso il futuro. Un sistema lasciato a se stesso diventa sempre più disordinato, si degrada inesorabilmente. Bisogna continuamente immettere energia dall’esterno per mantenerlo in ordine. I nostri organismi, fortunatamente, non sono sistemi isolati, e le complesse reazioni biochimiche che ci mantengono in vita riescono, almeno temporaneamente, a contrastare l’aumento di disordine. Ma anche così, a un certo punto il degrado diventa irreversibile. E anche l’energia stessa si degrada, diventando sempre meno utilizzabile.
In questo senso, c’è qualcosa di vero nel fatto che il passato era migliore del presente. In effetti, i fisici del Diciannovesimo secolo che per primi studiarono e compresero la legge dell’aumento dell’entropia ne furono turbati, e ne trassero fosche previsioni sul destino della vita e dell’intero universo, condannato alla morte termica, alla negazione di qualunque ulteriore cambiamento. Sarà per questo che idealizziamo i tempi andati? Chiaramente ci sono molti altri fattori in gioco, ma forse una parte di noi avverte davvero il secondo principio della termodinamica in azione. Ad ogni modo, proprio il secondo principio della termodinamica ci condanna ad accettare l’impossibilità di ricreare il passato. Lasciamo stare le nostalgie: quello che è fatto è fatto, non si torna indietro. Le uova rotte non si possono rimettere a posto. In modo metaforico, da scrittore, David Foster Wallace descriveva così le conseguenze dello scorrere del tempo (e dell’aumento di entropia) sulle nostre esistenze:
“Ogni giorno sono costretto a compiere una serie di scelte su cosa è bene o importante o divertente, e poi devo convivere con l’esclusione di tutte le altre possibilità che quelle scelte mi precludono. E comincio a capire che verrà un momento in cui le mie scelte si restringeranno e quindi le preclusioni si moltiplicheranno in maniera esponenziale finché arriverò a un qualche punto di qualche ramo di tutta la sontuosa complessità ramificata della vita in cui mi ritroverò rinchiuso e quasi incollato su di un unico sentiero e il tempo mi lancerà a tutta velocità attraverso vari stadi di immobilismo e atrofia e decadenza finché non sprofonderò per tre volte, tante battaglie per niente, trascinato dal tempo. È terribile. Ma dal momento che saranno proprio le mie scelte a immobilizzarmi, sembra inevitabile, se voglio diventare maturo, fare delle scelte, avere rimpianti per le scelte non fatte e cercare di convivere con essi.”
È terribile, sì. Ma quello che vale per un solo individuo, non vale se guardiamo alla collettività. La nostra capacità di opporci, come specie, all’aumento di entropia, è molto maggiore di quella di un singolo organismo: e dipende anche dalla tecnologia, dall’uso che sapremo fare dell’ambiente, e quindi in ultima analisi dalla nostra capacità di esplorare e capire quello che abbiamo intorno. Avere paura, irrazionalmente, del nuovo e del futuro, è una scelta perdente.