Il collegio visibile
Se anche Paul Krugman, sul New York Times, scrive un editoriale a proposito delle trasformazioni che internet sta introducendo nella comunità accademica – in particolare per quanto riguarda la convalida e la comunicazione dei risultati scientifici – forse significa che bisogna cominciare a prendere sul serio quelli che negli ultimi anni hanno parlato con insistenza di “open science”, sottolineando la crescente arretratezza di certe prassi consolidate del mondo scientifico.
La prima rivista scientifica, la Philosophical Transactions of the Royal Society, nacque nel lontano 1665. Verso la metà del Seicento, un gruppo di scienziati inglesi (all’epoca li si sarebbe chiamati filosofi naturali) si era entusiasmato al metodo sperimentale esposto nei decenni precedenti da Francesco Bacone, e aveva preso a riunirsi periodicamente per scambiarsi idee e conclusioni derivanti dall’applicazione di quel metodo allo studio dei fenomeni naturali. Nelle sue lettere, il chimico Boyle si riferiva a quelle riunioni con l’espressione invisible college, collegio invisibile. Erano una cosa a metà strada tra il club di gentiluomini e la società segreta: gente che se la passava bene e che si dilettava a capire come funzionava la natura, per poi raccontarselo davanti al fuoco, tra un té e e una battuta di caccia. Da quelle riunioni nacque la Royal Society e, per mettere ordine alle corrispondenze tra i membri, il primo segretario della società si inventò di stampare un bollettino: le Philosophical Transactions, appunto.
Da lì si è arrivati, nei secoli, a Nature e a Science. Ma il meccanismo della revisione paritaria e delle riviste scientifiche, pur adeguandosi ai tempi nella forma, è rimasto piuttosto simile a quello iniziale nella sostanza. È un modo che la comunità accademica si è dato per mettere nero su bianco e disseminare tra i suoi membri i risultati delle ricerche, e per decidere quali ricerche rispettano i requisiti minimi di aderenza al metodo scientifico e di corretta pratica professionale. Fondamentalmente, un modo per essere ammessi nel club.
Nel suo articolo, Krugman racconta efficacemente la prassi in atto nel mondo degli economisti. Ma penso che ogni studioso, in altre discipline, potrebbe condividere la sua sintesi. Fino a non molto tempo fa, le persone attive e di riconosciuta autorità internazionale in un certo campo di ricerca erano un numero tutto sommato piccolo, si conoscevano tutte tra loro, e agivano da garanzia e da selezione nei confronti dei nuovi arrivati. Le riviste scientifiche si limitavano a sancire uno stato di fatto, a cristallizzare per i posteri lo stato della ricerca in un certo momento storico, e a fornire pezze d’appoggio concrete – in termini di numero di pubblicazioni – per assicurare la carriera accademica degli studiosi più validi.
Ora, sono sempre di più quelli che si chiedono se l’ultimo passaggio ha ancora senso, nell’epoca di internet. C’è davvero bisogno di pagare piuttosto salatamente la pubblicazione su una rivista, e di pagare poi di nuovo la consultazione o l’acquisto delle riviste stesse? Da laureando, ho fatto in tempo a vedere gli ultimi fuochi dell’epoca in cui risultati e articoli circolavano per posta: si veniva a sapere quello che aveva fatto il tuo collega americano dopo settimane, a volte mesi, e l’unico modo di essere aggiornato sulle novità era fare il giro dei congressi più importanti: il “collegio invisibile” di quei tempi. Anche allora, la pubblicazione su una rivista era solo l’ultimo atto: ma lo scarto temporale tra il momento in cui si veniva a sapere di una scoperta e la sua pubblicazione non era così drammatico.
Oggi, le notizie viaggiano a una velocità che rende l’articolo, una volta stampato, già vecchio. Gli incontri di persona sono ancora importanti, certo, ma la possibilità di comunicare via internet rende gli scambi virtuali, tra gruppi separati geograficamente, molto più efficaci. E realtà come ResearchGate (definita una sorta di Facebook per scienziati) stanno iniziando a proporsi, neanche tanto velatamente, come il nuovo club a cui bisogna accedere per essere accademicamente rilevanti e per diffondere i propri risultati tra le persone giuste.
Stiamo forse assistendo ai primi segni della trasformazione dell’accademia in un collegio visibile?