Apologia del divulgatore
Raccontare la scienza è difficile. Ogni frase è una sfida. Quanto devo dire? Come devo dirlo? Dove devo fermarmi, quali dettagli devo eliminare, quali nominare solo di sfuggita, su quali concentrarmi? Se non avete provato a farlo, probabilmente non potete capire la fatica, il tempo che si finisce per dedicare anche a una singola frase, la ricerca del termine adatto, dell’analogia giusta, del compromesso ragionevole.
Molti anni fa, quando facevo la tesi di laurea, un mio conoscente mi chiese su che cosa stessi lavorando. Sul fondo a microonde, risposi. Ah, interessante, ne parlavamo proprio ieri sera in famiglia, disse lui. E subito dopo aggiunse: stavamo decidendo se comprarne uno.
Parecchi miei colleghi avrebbero fatto di questo aneddoto, e del suo inconsapevole protagonista, l’oggetto di esilaranti conversazioni da salotto con altri fisici. Io invece in quel momento mi sentii tagliato fuori dalla possibilità di avere conversazioni comprensibili con le altre persone a proposito del mio lavoro. E non solo con persone esterne al mondo accademico. La mia tesi di laurea si intitolava “Effetti di una tarda reionizzazione del mezzo intergalattico sulle anisotropie angolari del fondo cosmico”. Terminologia impeccabile. Ma un mio amico biologo mi disse che gli faceva lo stesso effetto del technobabble in una puntata di Star Trek.
Più o meno a quei tempi, una sera, decisi di spiegare ai miei genitori la radiazione cosmica di fondo (che è un modo preciso ma arido di dire che stiamo guardando il big bang, che ne stiamo sentendo il calore: accidenti, vi rendete conto?). Me lo ricordo ancora benissimo, eravamo tutti attorno al tavolo della cucina, presi anche carta e penna per fare qualche disegnino. Insomma, per me è cominciata così, con la voglia di spiegare agli altri, a tutti, che quello che facevo era importante, e bello, e in fondo non era così difficile, si poteva capire, potete capirlo anche voi, ascoltate, dovete solo seguirmi per un po’. Quella sera, intorno a quel tavolo, pensai per la prima volta che potevo scrivere un libro, e l’ho scritto, e poi ne ho scritti altri.
È faticoso, a volte anche frustrante, ma io non posso farci niente. Se qualcuno mi chiede di spiegargli qualcosa che so, io non riesco a resistere. (“Niente mi commuove maggiormente dell’essere capito”, diceva Valéry. Sarà questo, non so.) Però, se sei uno scienziato che sente di dover raccontare agli altri quello che fa, soffrirai di una dolorosa schizofrenia tra la tua metà rigorosa e intransigente e quella disposta a scendere a patti con il processo di approssimazione che qualunque traduzione comporta.
Il fatto è che non c’è una ricetta per farlo bene. Solo la tua integrità, il talento naturale, se c’è, e una certa dose di sfacciata umiltà, quella che ti fa vincere la paura che qualcuno possa credere che tu non sappia più di quello che stai raccontando. È la maledetta paura che spinge ancora molti scienziati a parlare a un giornalista come se stessero presentando i propri risultati a un congresso, o a giudicare quello che viene scritto su un blog con lo stesso metro che userebbero per sottoporre a revisione un articolo scientifico. Salvo poi sentirsi offesi e traditi se le persone non riescono a valutare l’importanza delle loro ricerche.
La capisco bene questa paura, ne comprendo i motivi, ma i miei eroi sono altri. Sono quelli che l’hanno vinta, quelli che sono riusciti a ispirare tantissime persone che non avrebbero mai avuto la possibilità di partecipare direttamente all’impresa scientifica e di capire un pezzetto dell’universo. Gente come Richard Feynman, definito da Freeman Dyson “mezzo genio e mezzo buffone”, come Carl Sagan, che si vide negare un posto nella National Academy of Sciences proprio a causa della sua attività di divulgatore, o come Alan Lightman, capace di scrivere testi specialistici per astrofisici ma anche una delle più belle opere di narrativa scientifica che io abbia mai letto.
Le gioie più grandi che mi abbia dato la mia professione sono due. La prima è quella di avere avuto la consapevolezza, per qualche istante, di essere uno tra i primi essere umani a vedere qualcosa che l’universo aveva fino a quel momento tenuto nascosto. La seconda è quella di aver visto un mio interlocutore, qualcuno magari conosciuto per caso e con cui non avrei mai più parlato in vita mia, illuminarsi per aver capito per la prima volta qualcosa che gli era sempre sembrato astruso. Non sono sicuro, lo dico onestamente, di quale tra le due sia la gioia più grande.
Rilassatevi, colleghi scienziati. Parlate con le persone, raccontate quello che fate. Vi faranno le domande più difficili che abbiate mai sentito, e non potrete rispondere rimandando al vostro articolo del ’98 su Nature, o nascondendovi dietro una cortina di tecnicismi. Uscite dai vostri uffici, rinunciate a qualche pretesa di essere i depositari di un sapere occulto, da non sporcare, da non corrompere. Fate qualche piccola concessione alla comprensibilità, anche a rischio di sbagliare.
E sbaglierete, ah, se sbaglierete. Scontenterete qualcuno che si sentirà invaso nel suo recinto specialistico, nel suo orticello di conoscenze acquisite e coltivate sgomitando per anni contro colleghi agguerriti, combattendo una spietata battaglia per la sopravvivenza che lo avrà portato a mettere sacchetti di sabbia intorno a un fortino assediato, a credere che ci sia un modo solo di dire le cose, il suo, e che ogni virgola del suo prezioso lavoro sia placcata d’oro a 24 carati e non sacrificabile.
Ma sapete, proprio l’altro giorno ho letto questa frase di Montaigne: Nessuno è esente dal dire sciocchezze. Il male è dirle con pretensione.