Due cose ci uniscono
La mattina dell’11 gennaio iniziano a scorrere i post sulla scomparsa di David Bowie (69 anni). Su Facebook molti condividono, molti mettono mi piace, anche se chiaramente non vogliono dire “mi piace la morte di Bowie.” Nei commenti ci sono tanti 🙁 .
La mattina del 14 marzo iniziano a scorrere i post sulla scomparsa di Riccardo Garrone (90 anni). Molti condividono, mettono mi piace, anche se chiaramente non…
Molti usano le nuove “reazioni” che da qualche settimana Facebook ha introdotto: soprattutto il cuore (cioè love, cioè pollice su, mi piace, ma di più) e la faccina con la lacrimuccia (cioè sigh, cioè sono triste).
A fine febbraio con sei disegnini semplici semplici Facebook ha, infatti, ridefinito in una certa misura lo spettro delle emozioni, la teoria delle passioni per un miliardo e mezzo di persone.
La mattina del 21 marzo iniziano a scorrere i post sulla morte di sette ragazze italiane di vent’anni. Conta l’intenzione e chiaramente il mi piace e il love non significano che…
E la faccina triste è la stessa ma non è la stessa di messaggi come “al super hanno finito i cornetti :(“. E però in queste occasioni, per molti e nonostante le migliori intenzioni, non ci stanno le faccine, perché le nostre emozioni sono semplici semplici ma anche più complicate di così.
Le sette ragazze, lo diciamo tutti, erano bellissime. Erano bellissime perché così giovani, perché ne guardiamo le foto con occhi commossi, perché in quella tragedia non possiamo trovare un senso. Erano bellissime perché quelle loro foto erano state caricate su Facebook o altra piattaforma, e se hai vent’anni oggi sull'”immagine del profilo ti proponi al meglio”, sui social network curi la tua figura, proprio come fai quando esci la sera. Al telegiornale vedo per alcuni secondi un servizio che intende raccontarne le vite attraverso quell’eredità digitale che, spesso senza pensarci, ci lasciamo dietro, pronta per l’uso e l’abuso altrui. Scorrono le foto e cambio veloce canale: mi pare un’invasione guardare.
Le storie di quelle ragazze vanno raccontate. Io non saprei come farlo e credo sia sbagliato rincorrere i post di “bacheche” che non erano certo pensate per essere viste dagli occhi di milioni di estranei (sinceramente turbati e partecipi, ma l’intenzione non toglie l’intrusione). Con il coraggio della banalità mi viene da dire che la nuova condizione di agevole accesso digitale alle informazioni – bastano un clic o, nel caso più arduo, una mancia a un “amico su Facebook” della persona morta per avere i materiali – non è inevitabilmente un accelerante. Proprio il fatto che sia così facile entrare in una parte importante delle vite altrui, delle nostre vite, dovrebbe essere, naturalmente e socialmente, un freno. Dovrebbe portare, se non pudore, prudenza.
Ma non c’è tempo per la prudenza, le morti scorrono veloci e tutto si confonde. Il 21 marzo vedo scendere da un aereo a Barcellona Matteo Renzi e leggo sul suo account Facebook: “come fai a parlare di primavera con le foto di sette ragazze che ti sorridono dalle immagini dei giornali online, ma che in realtà hanno chiuso gli occhi per sempre”, e sotto: “il nostro impegno per la sicurezza non è finito con l’approvazione della legge dell’omicidio stradale”. La mattina del 22 marzo, subito dopo gli attentati terroristici, vedo Matteo Salvini che posta su Facebook una sua foto da Bruxelles e mette insieme in modo ancora più diretto l’emozione, l’ansia di sicurezza e la propaganda politica: “Esercito e giubbotti anti-proiettile all’ingresso del Parlamento. Città ferma, solo sirene, ambulanze ed elicotteri. E qualcuno continua a dire che non ci hanno dichiarato guerra… Sveglia! Le preghiere non bastano più.”.
Le sirene strillano altissime sui social network, e mentre si passa dalla commozione al panico, mi rifugio nei pronomi personali, nelle piccole cose che scivolano dentro o sfuggono dalle frasi e dalle immagini. Perché le sette ragazze non “ti sorridono”, quei sorrisi non erano per Matteo Renzi, per me, per te, generico lettore. E chi ha “dichiarato guerra” a chi? Matteo Salvini non mette il soggetto, perché è, precisamente, sottinteso: è il loro micidiale e chiarissimo nella vaghezza, contrapposto al ci, al noi che non necessita di specificazioni e spiegazioni.
Molte delle vittime di Bruxelles non sono state ancora identificate, ma possiamo immaginare che una buona parte di loro utilizzasse Facebook: lì vivono ancora i loro profili – e probabilmente pure quelli degli attentatori suicidi in un social network affollato o in qualche forum riservato. Volti che i giornali online presto ci mostreranno, pronti per essere consumati dalle nostre “faccine”.
Facebook è un vivente e fiorente cimitero, e tante persone decedute “sono presenti” in forme diverse, ad esempio con un profilo “memorializzato”, o normalmente “aperto” e fermo, o aperto e attivo, cioè gestito da parenti o amici.
Continua a vivere quella parte di noi che abbiamo condiviso sul social network e per quanto\come viene ricordata. Vive, prendendo sul serio e in parodia Foscolo, nella digitale “eredità d’affetti” e davanti ai “guardi pietosi” o impietosi, perché una “nuova legge impone oggi i sepolcri” social.
Vive pure nella speranza della resurrezione, nel sogno tecnologico della nostra mente caricata su un altro corpo. Ci arriveremo presto, vero? Saremo immortali, per davvero, come i nostri post, foto, video, audio in the cloud (cioè in qualche computer e in qualche programma). Già oggi molti registrano\trasmettono gran parte della loro esistenza “in tempo reale” e, quando questo mediocre hardware tra qualche decennio arriverà alla fine del suo cammino mortale – per un naturale esaurimento, per un incidente stradale, per una bomba in metropolitana –, sarà disponibile la magica tecnologia capace di trasferire i programmi e i dati importanti. Insomma la nostra personalità unica sarà caricata su un’altra macchina, più nuova e potente: come passare dal floppy al cd, e al dvd, e quindi al cloud; come sospendere e riattivare l’account su Facebook. Come in The Immortalist, recentissimo documentario scientifico della BBC su questi temi. Come in un racconto distopico di Black Mirror. Come, nell’imperfetto presente, in un giornale online o sul Facebook di un estraneo.