Il feticismo dell’etichetta
L’altro giorno la Coldiretti ha inscenato uno spettacolare presidio del confine italiano a Brennero. Con piglio dannunziano, gli agricoltori hanno fermato alcuni dei tir che transitavano verso il nostro Paese. “Nei camion frigo”, abbiamo letto, “sono stati trovati latte polacco, cosce di prosciutto tedeschi e olandesi, cagliate tedesche”. La difesa dei sacri confini dai porcelli olandesi e dai latticini polacchi ha portato onore e gloria agli ardimentosi rappresentanti degli allevatori.
All’impresa si è unito il Ministro delle Politiche Agricole. Ovviamente, il ministro De Girolamo ha tutto il diritto di pensare quello che crede delle regole europee attualmente in vigore. Se non ricordiamo male, il compito del potere esecutivo è proprio quello di applicarle, le norme. Forse un atteggiamento più sobrio e una maggiore equidistanza, perlomeno sul piano formale, da un importante gruppo d’interesse (che avremmo pensato della Cancellieri se avesse marciato assieme con gli Avvocati, o di Giovannini in corteo con la Cgil?), sarebbe auspicabile.
E tuttavia Nunzia De Girolamo non è sola. I grandi giornali si allineano volentieri alla posizione di Coldiretti. Del resto, come obiettare a slogan che appaiono un distillato di buon senso, “no alla concorrenza sleale”, “si al made in Italy”, viva i prodotti genuini? A me sembra che in realtà ci siano due grandi fraintendimenti, sui quali sarebbe opportuno la discussione si aprisse.
In primo luogo, è risibile l’equazione sano uguale italiano. Soprattutto perché essa ne implica un’altra: straniero uguale fallato. Le norme europee sicuramente non sono perfette (e quando lo sono?). Ma sono pensate sostanzialmente per tutelare la salute delle persone. Gli stessi obblighi di etichettatura vanno in quella direzione: spesso riversando sul consumatore un’alluvione di informazioni talmente minuziose e dettagliate da risultare, in ultima analisi, inutili. Per la Coldiretti, sarebbe scandaloso che prodotti italiani fossero fatti talora con materia prima di altri Paesi. Ma sostenere questa tesi significa pensare che (a) i prodotti italiani siano omogenei in quanto “italiani”, (b) il consumatore non sia in grado di percepire la differenza fra un prodotto di maggiore e uno di minore qualità, (c) i prezzi non “dicano nulla” agli acquirenti. Al contrario, i prezzi trasferiscono informazioni. Che ci sia differenza fra un vino da tavola e un grande barbaresco, non me lo dice soltanto la denominazione d’origine: me lo segnala, in primo luogo, il fatto che essi hanno un prezzo diverso.
Come ha notato Serena Sileoni su Leoniblog, la normativa vigente mira già a proteggere i consumatori da frodi e alimenti adulterati. Per orientarsi al supermercato, abbiamo davvero bisogno anche di una ulteriore indicazione del Paese d’origine, applicato anche alla materia prima e non solo al luogo di realizzazione e confezionamento del prodotto acquistabile dai noi consumatori? Possiamo realisticamente spacciare questa indicazione di nazionalità per sinonimo di qualità e correttezza “a prescindere” – a prescindere dal fatto che allevatori più o meno coscienziosi e produttori più o meno bravi esisteranno anche in Italia, così come in Germania, Polonia, Olanda, eccetera?
In seconda battuta, ammettiamo che la Coldiretti in realtà stia rispondendo a una domanda reale dei consumatori. Esiste un certo numero di essi – magari proprio quelli con maggiore disponibilità a spendere – che apprezzerebbe una certificazione di “qualità e italianità”. Che cosa impedisce a Coldiretti di inventarsela? Come mai cerca l’avallo dell’Unione Europea, e non sviluppa invece autonomamente il proprio bollino blu? I consumatori hanno fame di informazioni: e ce l’hanno soprattutto quanti, fra loro, stanno in questi anni riscoprendo il gusto della buona tavola, frequentano i “mercati dei contadini”, dedicano i week end all’esplorazione delle tante terre promesse dell’enogastronomia che esistono nel nostro Paese, guardano MasterChef e s’iscrivono ai corsi di cucina. Esistono consumatori esigenti di prodotti alimentari – e non sono pochi. Coldiretti proponga alla su filiera di contrassegnare le buone cose che realizzano con una bella etichetta “Cibi d’Italia”. La spieghi al pubblico, s’inventi i tre bicchieri dell’italianità, insomma se davvero il “made in Italy” da cima a fondo è potenzialmente una risorsa dimostri di considerarlo davvero tale, ne faccia promozione. Oscar Farinetti, che di queste cose è maestro, potrebbe dare buoni consigli.
A chi serve un’altra grandinata di caratteri sull’etichetta? E perché, per dimostrare che è buono ciò che facciamo noi, dobbiamo sempre sostenere che è orribile ciò che fanno gli altri?