Una repubblica fondata sull’autoinganno
«Gran parte del favore che il socialismo trova», spiegava Maffeo Pantaleoni, è dovuta alla speranza che riesca «a eliminare la rivoluzione perpetua che la concorrenza produce in ogni situazione». L’apparente irriformabilità del nostro Paese si spiega anche così. Con la costruzione, mattone su mattone, di un consenso per il quale il governo migliore è un governo materno.
L’Italia è, in parte, una sorta di grande Sulcis. Nel 1994, l’Enel fece sapere al governo che la principale compagnia energetica nazionale, all’epoca ancora un’azienda IRI, riteneva più economicamente sensato importare carbone dal Sud Africa che servirsi di quello sardo.
Silvio Berlusconi aveva appena vinto le elezioni, sull’onda di speranze thatcheriane. Ma se la signora Thatcher aveva condotto coi minatori inglesi un’estenuante guerra di logoramento, per restituire libertà al singolo lavoratore ridotto ormai a ingranaggio della macchina sindacale, il Cav andò a incontrare personalmente i minatori in agitazione e venne incontro a buona parte delle loro richieste. I ministri leghisti del bilancio e dell’industria, Pagliarini e Gnutti, contrari, vennero esonerati dal firmare il provvedimento a favore delle miniere.
È da vent’anni che il caso Sulcis riaffiora periodicamente nel dibattito pubblico. Le forze impersonali della divisione del lavoro internazionale avevano già condannato l’obsolescenza del bacino carbonifero scoperto dal generale La Marmora. I seicento milioni di euro spesi dalla regione Sardegna per mantenere aperte le miniere dal 1996 ad oggi sono il monumento a una politica che pensa di essere il grande anestetico della realtà.
La parola più diffusa e “condivisa”, nel vocabolario politico italiano, è “protezione”. L’ecosistema del mercato si nutre di errori, i nuovi progetti si costruiscono sulle imperfezioni dei precedenti, comprendere aspettative e esigenze dei consumatori implica la continua ridefinizione delle produzioni. La società ne beneficia nel medio e nel lungo periodo, nel breve vi sono dei “perdenti sociali”. I processi di aggiustamento non sono istantanei. Ma senza errori non s’apprende, senza fallimenti non si cresce. Se rifiutiamo l’esistenza stessa dell’errore, se decretiamo irreale il fallimento, precipitiamo nell’autoinganno, senza risolvere uno solo dei problemi che le difficoltà in cui versa un certo comparto produttivo o una certa azienda segnalano. Di “innovazione” in Italia si parla ad ogni tavola rotonda, eppure l’innovazione non si cucina a comando, non può realizzarsi se agli attori economici si toglie il bisogno di adattarsi.
L’ansia da protezione porta a una sorta di luddismo per via legislativa. Il governo materno consola i suoi cuccioli. Che siano pezzi di pubblico impiego sindacalizzato, imprese incapaci di adeguarsi alle domande del mercato, categorie abituate a rigide barriere all’entrata, a chiunque urli «fermate il mondo voglio scendere» lo Stato italiano s’affretta a fornire una scala. Arrugginendo la nostra capacità di adattamento, la protezione diventa asfissiante. Più una categoria o un’industria è protetta, e più di protezione finisce per aver bisogno, in una spirale viziosa che spegne la voglia di intraprendere ma anche la lucidità nel soppesare costi e benefici di qualsiasi scelta politica.
Il protezionismo consustanziale a tanta parte dall’economia italiana ne ha impoverito creatività e resilienza, ne ha ingrigito e burocratizzato lo spirito, e assieme ha anche atrofizzato la capacità riformista della politica. Più stiamo immobili, più ci scopriamo fragili.
(Questo articolo è stato pubblicato anche su Il Foglio)