Il peso della politica e dei cognomi
Le pretese colpe dei padri, le fortune dei figli. Se la polemica che si è sviluppata attorno a Giulia Ichino appare davvero pretestuosa, è difficile non comprendere la rabbia e la frustrazione di chi ha poche certezze ma ben comprende che l’Italia resta una “economia di relazione”. La Ichino, trentacinque anni e senior Editor alla Mondadori, ha difeso se stessa in modo efficace:
«So di essere molto fortunata, ma mio padre non c’entra. Studiavo all’università con Vittorio Spinazzola e Gianni Turchetta, ho mandato un curriculum alla Mondadori e fortuna ha voluto che si aprisse allora la collana Sis. Ho fatto la correttrice di bozze per un anno, poi una sostituzione maternità e l’assunzione.»
Alcuni autori Mondadori (fra cui Alessandro Piperno, che non dev’essere proprio uno di bocca buona) hanno rivendicato le competenze e le capacità di Giulia Ichino. C’è un solo motivo per cui la Ichino è finita al centro di questa polemica: suo padre Pietro, ex PD e sostenitore di riforme volte a liberalizzare il mercato del lavoro. Francamente, se una figlia editor Mondadori e presunta raccomandata (suppongo, perché l’editore è lo stesso del padre, e non perché s’immagina chissà quale confidenza fra Ichino senior e il proprietario della casa editrice, Silvio Berlusconi) è il massimo che l’ala massimalista del PD riesce a tirare fuori per regolare i conti con Ichino, il senatore montiano può dormire sonni tranquilli.
Se è vero che non basta un bel cognome per fare carriera, è parimenti vero che, in linea di massima, non lo rende certo più difficile. In qualsiasi Paese, anche nei più meritocratici, le relazioni e le conoscenze hanno un peso. Le élites sono circoli di raggio ridotto. Le persone in vista tendono ad avere consuetudine con altre persone in vista. L’educazione che ci è stata impartita, al pari degli interessi coltivati dai nostri genitori e delle persone che ci hanno presentato, fanno la differenza nella nostra formazione.
Alessandro De Nicola ripete spesso che «il libero mercato è per i figli di nessuno, non per i figli di papà». Quel che vuole dire è che gli ambienti “chiusi” nuocciono di meno ai figli di papà, che partono avvantaggiati nella vita. Non esiste però, se non nei sogni, “meritocrazia” che possa prescindere da un dato di realtà: nasciamo diversi in posti diversi, qualcuno in condizioni decisamente più facili di altri.
L’attacco a Giulia Ichino sottende la tesi per cui la “flessibilità” sostenuta dal padre nuocerebbe a chi non è nato con la camicia. Nel senso, mi par di capire, che costringerebbe coloro che stanno sui gradini più bassi della scala sociale ad accondiscendere ad occasioni di lavoro precarie, che pertanto limitano la possibilità di progettare il proprio futuro e, più in generale, la serenità di vita.
A queste ansie darebbe davvero sollievo un mercato del lavoro più rigido? Un mercato del lavoro più rigido rende più difficile, per esempio, il riassorbimento nel mercato del lavoro in caso di perdita dell’occupazione. Questo grafico pubblicato qualche tempo fa da Alphaville dell’FT rende l’idea, mostrando bene il trade off fra tutela dei “diritti” e facilità di ritrovare un posto di lavoro.
L’unica vera risposta all’ansia dei precari viene piuttosto dalla crescita economica. Pier Luigi Bersani avrebbe dovuto sì abbracciare la precaria Chiara Di Domenico, come ha fatto, ma anche prometterle che si impegnerà per un Paese che non cresca in media dello 0,2% l’anno nei prossimi dieci anni, come negli scorsi.
La crescita economica non dipende, ovviamente, solo dal modo in cui è regolato il mercato del lavoro. Ed è necessario prendere atto che in qualsiasi sistema, anche in quello meglio oliato, vi saranno sempre successi e insuccessi incomprensibili, straordinarie botte di fortuna e, simmetricamente, disgrazie che lasciano senza parole. La stessa Giulia Ichino, con molto buon senso, ammette di essere una “fortunata”. Nella vita non conta solo la famiglia in cui vieni al mondo: contano anche le persone che incontri, i libri che leggi, le porte che ti apre il caso. Tutte cose non regolamentabili.
Sicuramente non fa bene, né alla crescita né al desiderio di una società più equa, la persistenza di tanti “circoli chiusi” nella nostra società. In qualsiasi Paese, i figli dei ricchi e dei potenti fanno le stesse scuole e crescono dandosi del tu.
A esacerbare questa situazione, in Italia, è la pervasività della politica. Un libero mercato non è “meritocratico”, nel senso che non segue apertamente il progetto di consentire agli outsider di arrampicarsi in cima alla piramide sociale, o di integrare meglio giovani e donne nel mercato del lavoro. Ma le imprese in un mercato perseguono il profitto, e per realizzarlo debbono allocare al meglio i fattori di produzione. Siccome le imprese sono fatte di esseri umani, questi esseri umani possono anteporre le simpatie, l’amicizia, i rapporti personali al tentativo di mettere “ciascuno al posto giusto”. Quanto più lo fanno, però, più mettono a rischio la loro capacità di fare utili. Questo è tanto più vero quanto maggiore e più agguerrita è la concorrenza: meno bene le imprese “vecchie” combinano i fattori, e più spazio creano per imprese “nuove” che cercano un posto al sole.
Un Paese che genera più ricchezza e che sostiene la legittima aspettativa di tutti di “poterci provare”, a farcela nella vita, è un Paese nel quale il peso della politica è inferiore e gli spazi della concorrenza sono maggiori. Col peso della politica, al contrario, cresce inevitabilmente anche il peso dell’essere “nati bene”. Che è una fortuna: non dovrebbe essere un passe-partout per tutte le porte, ma nemmeno una colpa da espiare.