L’Area C di Milano non è solo una tassa
Un anno dopo l’introduzione, l’area C di Milano – la congestion charge voluta dalla giunta Pisapia rivedendo l’Ecopass di Letizia Moratti – continua a piacere poco a chiunque non abbia la fortuna di vivere nel centro di Milano. L’automobilista si sente espropriato della propria libertà di movimento; i commercianti hanno sostenuto – con argomenti ora più ora meno efficaci – che l’area C penalizzerebbe le spese nel suo perimetro e per molti non si tratta di nient’altro che un balzello in più. Perché dovrei pagare per l’utilizzo dello spazio pubblico, se già come italiano subisco una pressione fiscale tanto elevata?
Negli anni Settanta, un economista inglese, Arthur Seldon, scrisse un libro intitolato “Charge”, ora incluso nei suoi Collected Works editi dal Liberty Fund di Indianapolis. L’ottavo capitolo ha inizio in questo modo: “Dare un prezzo all’utilizzo delle strade potrebbe migliorare l’uso delle strade esistenti, raccogliere risorse per costruirne di migliori, e in ultima analisi persino ridurre i costi attraverso la minaccia della concorrenza di strade a pedaggio private”. Recensendo una biografia di Seldon, il Daily Telegraph lo ha descritto come “the thinker with free markets in his blood”, il pensatore col libero mercato nel sangue.
Seldon sosteneva che fosse necessario fare pagare in prima persone gli utenti di un certo servizio pubblico per due ragioni.
La prima riguarda la disciplina delle finanze pubbliche. Le alternative sono due: o un servizio lo paga chi ne trae beneficio, oppure, attraverso la fiscalità generale, lo pagano tutti. Nel primo caso lo Stato o l’ente locale è costretto a confrontarsi con la domanda: se nessuno acquista un servizio, vengono a mancare le risorse per fornirlo. Nel secondo caso, i soldi di Pietro finanziano Paolo senza che il primo se ne accorga. Questa confusione contribuisce a diminuire l’insistenza dell’opinione pubblica affinché il servizio erogato sia di qualità (se ne sono “consumatore”, tendo a pretendere che sia all’altezza delle mie aspettative) e annebbia la vita al cittadino-elettore, che dovrebbe valutare come il governo (nazionale o locale) spende le risorse incamerate attraverso le imposte.
La seconda è che i prezzi veicolano informazioni. Nei settori nei quali allo Stato potrebbero fare concorrenza i privati, l’avere delle tariffe chiaramente definite (piuttosto che finanziarli attingendo al pentolone delle imposte) può stimolare l’afflusso di nuovi concorrenti, e mette gli utenti in condizione di valutare meglio a chi rivolgersi.
Il caso dell’Area C è diverso: si tratta di un pedaggio. Ciò a cui si dà un prezzo è il consumo di un bene scarso, lo spazio pubblico. Si è scelto di limitare l’accesso a coloro che fossero disponibili a versare 5 euro, per utilizzare in centro l’auto e non i mezzi di trasporto collettivi. Questo ha indotto molte persone a rivedere i propri comportamenti, rendendo più fluido il traffico milanese.
Se l’Area C è solo un’altra tassa, hanno ragione i suoi critici a lamentarsene. Ma forse è anche un qualche cosa in più. È un significativo passaggio a un’altra visione del rapporto Stato-contribuente, nella quale – ogni volta in cui ciò è possibile – si paga per “qualcosa” (la manutenzione delle strade milanesi) e non semplicemente perché “si deve”. È evidente che a ciò dovrebbe corrispondere una riduzione di altre imposte, possibilmente più prima che poi, ma un lungo cammino deve pur cominciare con un piccolo passo.