Formidabile il Mondiale dell’82!
Formidabile il Mondiale dell’82!
Ero da pochi mesi maggiorenne e avevo da poco fatto un’altra grande conquista: la patente. Con la mia Panda nera fiammante scorrazzavo con gli amici per la Versilia in quell’estate lontana. Eravamo nell’Era del Cinghiale Bianco e sul ponte sventolava la bandiera tricolore. Si perchè dopo aver visto i gol di Rossi, Tardelli e Altobelli, nella torrida e caotica veranda di una pizzeria di Viareggio, ci spostammo col branco nella vicina Bussoladomani a Lido di Camaiore a festeggiare con addosso tutti i nostri vessilli bianchi, rossi e verdi. Al teatro tenda andava in scena il concerto di Franco Battiato, un altro dei miei miti adolescenziali.
Fu naturalmente fantastica quella serata. Il maestro catanese si adattò all’unicità di quei momenti prestando musiche e parole all’entusiasmo patriottico che aveva pervaso tutto e tutti. Neanche la spirtualità celestiale dell'”Aria sulla quarta corda” di Bach interpretata dal violino di Giusto Pio riuscì a sospendere l’atmosfera caliente di quel delirio collettivo.
Era da tempo immemore che gli Azzurri non vincevano qualcosa per cui la felicità, rimasta repressa per troppe generazioni, fu doppia, tripla. Schemi, atteggiamenti tattici, scelte stretegiche sarebbero state ricostruite molti anni dopo. Il quel momento c’era solo la voglia di gioire nell’inseguire con gli occhi un pallone che correva veloce dai piedi di Tardelli a quelli di Gentile per arrivare telecomandato sulla testa magica di Paolo Rossi, con Schumacher a farfalle. Un gol indimenticabile che faceva giustizia del rigore sbagliato da Cabrini e che rimetteva in play un nastro che si era improvvisamente inceppato.
Certamente si parlava della “melina” dell’Italia, dell’opportunismo di Pablito, della classe di Scirea, ma erano dettagli. La sostanza era altrove: nell’urlo impazzito di Tardelli, nell’esile corpo di Altobelli che si faceva beffe dei goffi difensori tedeschi nel più classico dei contropiede, nel triplice “campioni del Mondo!” di Nando Martellini.
Alla fine della loro carriera ho avuto modo di frequentare per lavoro quasi tutti gli eroi di Madrid, quando si sono riproposti in mestieri dove il valore aggiunto dato da quell’impresa fosse palpabile: allenatori, direttori sportivi, responsabili di settore giovanile, commentatori televisivi, addirittura presidenti di club (come Dino Zoff, il mito tra i miti). Sono oggi persone normali, anche semplici, forse addirittura succubi dell’immagine che si portano appresso. Sono i simboli di un’epoca allegra, felice, spensierata. Per tutti noi rappresentano il sogno, l’impossibile che diventa realtà. Francamente non li vorremmo vedere sporcarsi le mani nelle attività quotidiane di tutti noi comuni mortali. Li vorremo tenere per sempre nel nostro Pantheon dei miti pagani.
Negli anni successivi durante le mie tante esperienze professionali nell’universo calcio sono tornato a volte sulle emozioni di quella serata ma più rivissute in quella forma così intensa e istintiva.
Quella partita e quel Mondiale rimangono lo sparticque del mio modo di sentire il calcio. Tutte le vittorie successive sono state inquinate dalla razionalità, dalla necessità di dover vedere la partita con occhi diversi. C’è infatti un prima e un dopo quell’11 luglio 1982.
Un prima fatto appunto di emozioni genuine: le lacrime di bambino quando vidi per la prima volta in carne ed ossa Boninsegna a Coverciano, l’incredulità nell’entrare per la prima volta nella curva dell’Arena Garibaldi e scoprire che il campo era verde (e non grigio come avevo sempre visto in tv), la gioia per il gol di Barbana all’Ardenza in un derby storico coi cugini labronici.
Eppoi c’è stato un dopo ’82 fatto di studio, analisi, interessi personali, rapporti di lavoro. Un calcio più distante dal piacere effimero e dal godimento fine a se stesso.
C’è stata anche un’altra Italia-Germania importante nella mia vita, questa volta vissuta in prima persona come match-analista nello staff di Marcello Lippi. Parlo naturalmente della semifinale della WC2006. Molte le soddifazioni e le gratificazioni personali legate a quel match, una vittoria a cui sento di avere dato il mio contributo attivo. Ma niente a che vedere con la gioia travolgente di quel giorno in Versilia.
C’è una differenza sostanziale tra queste due partite nel mio io. Della finale spagnola mi ricordo tutto quello che ho fatto dal fischio finale in poi (la pizzeria, il concerto, il ritorno in città, la notte pazza). Nessun flashback della vigilia. Della semifinale di Dortmund ho in testa tutto quello che ho fatto prima (la vivisezione delle partite precedenti, l’improvvisa squalifica di Frings, le discussioni con lo staff tecnico, i 40 minuti di video-analisi fatta personalmente con Francesco Totti, i calci piazzati visti e rivisti con Buffon). Del dopo non ho ricordi particolari, solo il pensiero fisso sul cosa sarebbe potuto succedere il giorno dopo tra Francia e Portogallo, la partita che avrebbe deciso l’ultimo ostacolo che avremmo dovuto superare, nella finalissima di Berlino, prima di poter sentire ancora l’urlo “Campioni del Mondo!”.