Può esistere il calcio senza il calciomercato?
Sulle prime pagine dei giornali (non solo sportivi) dilaga il mistero Tevez conteso tra sceicchi e grandi capitali del calcio. E mi suggerisce tre domande.
Si può immaginare un calcio che non preveda tra le priorità il risultato agonistico della prima squadra e di conseguenza l’attività frenetica di acquisto di giocatori mercenari?
Si può pensare una gestione economica di una società professionistica che non preveda introiti proporzionali all’andamento dei risultati della prima squadra?
Si può costruire un bilancio meno volatile che abbia altre fonti di revenue e una distribuzione dei costi più equilibrata e non concentrata quasi esclusivamente negli stipendi dei giocatori?
Se si guarda in casa nostra di direbbe di no. Tutti i club sono indebitati e spendono soldi e credibilità per vincere subito comprando giocatori a destra e a manca e cambiando allenatori in maniera schizzofrenica. E questo in tutte le categorie, anzi forse più si scende, più si accentua questo fenomeno e il relativo indebitamento coi fenomeni distorsivi che conosciamo, a partire dagli illeciti sportivi sulle scommesse.
Ma basta andare poco oltre i nostri confini nazionali per vedere che le cose negli ultimi dieci anni sono cambiate sensibilmente. In Francia, Svizzera, Germania, ma addirittura Croazia (dove giocano in 30% di Under 21 contro il 4% della Serie A). La tendenza a livello internazionale è verso un calcio sostenibile da tutti i punti vista: etico innanzitutto, poi economico, infine sportivo.
Penso sia arrivato il momento di realizzare un modello gestionale di una squadra di calcio che si basi su assets più stabili che possano crescere nel tempo in funzione di un programmazione più razionale.
Il presupposto è creare valore partendo dalla formazione. Per farlo occorre puntare sui giovani in maniera concreta, metodica, strategica. La loro crescita può portare entusiasmo, partecipazione collettiva, idee nuove. Questo vale per tutti i club ma in particolare per quelli medio-piccoli che girano tra le Serie B e la Lega Pro. L’obiettivo primario dovrebbe essere quello di portare in prima squadra un numero di giocatori progressivamente crescente proveniente dal proprio settore giovanile.
Per realizzare questo scenario occorrerebbe costruire dal basso un rapporto fiduciario con tutte le realtà calcistiche della città che generi interesse e incentivi tutti a partecipare. Una molla che può scattare solo se il club professionistico diventa espressione finale di quanto la città sa fare in ambiti diversi e che trovano una sinergia comune grazie a quella passione che solo il calcio sa muovere.
Un grande laboratorio dove ricerca e sviluppo alimentano, in strutture idonee e con personale altamente qualificato, la formazione di nuove generazioni di calciatori col coinvolgimento di Enti locali, Università e imprenditoria. La realizzazione di una Cittadella dello Sport organizzata intorno a questi valori potrebbe essere facilmente messa a reddito permettendo al club di costruire un bilancio solido che prescinda dai risultati della prima squadra.
Non è fantasia e neanche utopia. E’ un concetto di management sportivo che è già stato messo in pratica in alcune situazione importanti in Spagna, l’Atletico Bilbao su tutti. Ma anche in Francia c’è un esempio eclatante. Si tratta del Rennes l’anno scorso a lungo capolista delle Ligue 1 e tuttora nelle prime posizioni, con la rosa più giovane d’Europa (22 anni di media). Ogni anno salgono in prima squadra 7 ragazzi del settore giovanile. L’esperienza degli ultimi cinque anni dimostra che l’80% dei giovani che arrivano dalla “cantera” non ha problemi di alcun tipo a inserirsi nel gruppo dei professionisti. L’allenatore che ha cambiato tutte le regole del club bretone è stato il rumeno Boloni. Il primo a sapersi adattare con grandi risultati a un modo nuovo di fare calcio, che punta molto (quasi tutto) sui giovani smettendola di buttare i soldi dalla finestra.