Ibrahimovic non sia un modello
Come deve essere il calciatore del futuro? Deve avere anche una responsabilità etica (dare l’esempio agli altri) o solo una responsabilità tecnica (dare il suo apporto alla squadra per vincere)? Leggendo cosa dice Ibrahimovic presentando Io, Ibra, la sua autobiografia a Luigi Garlando sulla Gazzetta dello Sport dovremo arrivare alla rapida conclusione che conta solo vincere, con Moggi o senza Moggi, con le testate o coi dribbling. Il mito del bad boy traspare in tutto il suo potere mistico. Ma riportando tutto questo in una dimensione razionale cosa resta? Una rissa con Onyewu o un sbronza a base di vodka. Aspetti miserrimi rispetto al prepotente e straordinario valore del calciatore Ibrahimovic che invece passa incredibilmente in secondo piano.
Certo l’immaginario si riempie più facilmente con personaggi come Cassano e Balotelli piuttosto che Iniesta e Xavi. Inoltre la mia generazione (diciamo over quaranta) è stata forse l’ultima in Italia ad essere cresciuta per strada, col pallone tra i piedi. Per cui sentir parlare di infanzia difficile e lotte di quartiere ci fa ricordare il nostro vissuto, più o meno felice.
Oggi i nostri figli (a partire dai miei) hanno la vita completamente programmata e il tempo dedicato al calcio è solo quello degli allenamenti (tre ore la settimana). È chiaro che una contrazione del tempo nell’età evolutiva, dove l’apprendimento tecnico e motorio è più marcato, penalizza la crescita del loro talento.
Ma questo non vuol dire che era meglio quando si stava peggio. Non dobbiamo tornare indietro, alla polvere dei campetti sgangherati di periferia e alle bande di quartiere, dove imperava la legge del più forte e del più furbo. Non penso che quei percorsi, dal ghetto di Malmo a Bari Vecchia, siano il modello di riferimento o che quei percorsi abbiamo aiutato Ibra e Cassano a diventare campioni… anzi!
E così arrivo al punto. Penso che giocatori come Ibrahimovic, Cassano e Balotelli abbiano delle qualità innate e precoci così superiori alla media che sarebbero emerse comunque. Infatti Ibra giocava già nel Malmo a 14 anni (e a 20 nell’Ajax), Cassano nella Roma a 19, Balotelli nell’Inter a 17. Al contrario, se avessero avuto un’infanzia meno violenta, meno orientata alla sovravvivenza personale e quindi alla creazione di un ego smisurato (non a caso tutti questi ragazzi si reputano i più forti del mondo) ora avrebbero un’equilibrio migliore che gli avrebbe permesso, forse, di fare bene anche in contesti diversi. Voglio rimanere sull’esempio di Ibrahimovic che è molto esplicativo.
Dalle prime anticipazioni della sua biografia, trapela che quando arrivò all’Inter trovò un sacco di gruppetti divisi tra loro (argentini con argentini, brasiliani con brasiliani, ecc…). Penso io: Ibra si sentiva escluso. Lui disse a Moratti che bisognava rompere questi muri per fare una squadra coesa. Penso io: un unico clan capeggiato da lui. Questo è, infatti, il suo concetto di squadra. Ma questo può funzionare solo se trovi dei sottoposti, non gente che ha un suo modello etico-sportivo già collaudato dove ognuno può esercitare un ruolo chiave nel rispetto di quelli altrui (vedi Barcellona). Ma il modello-Ibra ha anche altre controindicazioni, cercherò di elencarle:
1. quando crolla il rendimento del capo clan, crolla il rendimento di tutta la squadra. Quante volte si parla di Ibra-dipendenza?
2. quando si gioca a grandi livelli (fasi finali Champions o Mondiali) spesso la forza del singolo non basta, anzi inibito lui, viene meno il resto. Quante volte si è detto che Ibra manca gli appuntamenti importanti?
3. Il giocatore boss deve godere di privilegi e di sussiego, creando disparità nella gestione dello spogliatoio. Ibra dice che era contento quando Mourinho gli mandava i messaggini per fargli i complimenti o sapere come stava, mentre non gli piaceva Guardiola che lo trattasse come gli altri.
4. Il talento individuale è trasmissibile? Passato Attila cosa resta? Chi altro può vincere con quel modello? È più facile fare un ciclo con un modello di gioco che integra i campioni (mentalità inclusiva) o con un gioco dipendente da un solo campione (mentalità esclusiva)?
Alla luce di queste considerazioni penso di poter dire che il modello bad boy non può essere quello da trasmettere al calciatore di domani. Dovremo sforzarci, la federazione in primis, di migliorare la formazione che si fa nei settori giovanili. E forse non sarà sufficiente. Occorrerà trovare spazi ulteriori per coltivare la tecnica e la creatività dei bambini, forse all’interno del percorso scolastico, nella logica dei college americani e, forse, coinvolgendo anche le famiglie nella sensibilizzazione all’educazione sportiva e alimentare (interessanti a questo proposito gli articoli usciti recentemente su Il Nuovo Calcio). Non ho la ricetta pronta ma questa è la strada da battere.