Giù al tappeto negli anni Ottanta

Knocked Out Loaded (1986)

(Il disco precedente: Biograph.
Il disco successivo: Down in the Groove).

C’è un western che ho visto una volta, su un pistolero che attraversava il deserto. L’uomo era Gregory Peck, però coi baffi. Era il più bravo di tutti ma si era rotto i coglioni – a una certa età succede. Non ne poteva più delle sparatorie, non trovava più niente di eccitante nei duelli al sole, e soprattutto non poteva più soffrire il modo in cui ti fissano i più giovani – quel modo che hanno di sgranare gli occhi dalla sorpresa, poi subito di stringerli per metterti a fuoco, per assicurarsi che sei proprio lo stesso tizio ritratto sulla taglia – e intanto senza accorgersene hanno già la mano sulla fondina. Che supplizio, che rottura, i ragazzini che vogliono farti fuori per farsi un nome. Chissà se sono mai stato uno di loro.

Il film andò male ai botteghini, secondo gli esperti anche a causa dei baffi di Gregory Peck. "I tuoi baffi ci sono costati milioni", gli avrebbe detto un produttore.

Il film andò male ai botteghini, secondo gli esperti anche a causa dei baffi di Gregory Peck. “I tuoi baffi ci sono costati milioni”, gli avrebbe detto un produttore.

Mi è venuta in mente questa cosa mentre ridavo un’occhiata a uno dei documenti più penosi che un dylanita possa reperire su Youtube – qualcuno avrà già indovinato. Mettiamola così: qual è l’evento più glorioso nella storia del rock degli anni Ottanta, quello che segna uno spartiacque che è ancora visibile da qui, oggi? Senza dubbio il Live Aid, proprio nel bel mezzo del decennio: estate 1985. È la fine ufficiale del cinismo punk e post-punk; l’apparizione abbastanza improvvisa di una nuova sensibilità più filantropica che politica. I nuovi eroi da palcoscenico non vogliono soltanto vendere dischi ed essere adorati dal pubblico pagante: vogliono essere buoni. Salvare il mondo. Proprio lo sporco mondo che fino a qualche anno fa andava bruciato, improvvisamente nel 1985 diventa cosa sacra e degna di essere salvata. Bob Geldof è il profeta, Bono il Messia, Freddy Mercury il ladrone pentito eccetera eccetera. Ma chi è che fino all’ultimo momento cercò di rovinare la festa? Senza cattiveria, ma con l’intuitiva ostinazione di chi sembra essere nato per mettere a disagio la gente alle cerimonie? Un aiutino: in fondo alla scaletta, nel set di Philadelphia, c’era il grande Bob Dylan.

Anche se forse non se ne rendeva conto. Non era il solo: il Live Aid esplose in maniera abbastanza imprevista. Fino a pochi giorni prima ne parlavano soltanto gli addetti ai lavori e il giorno dopo sui quotidiani era diventato lo show del secolo. Dylan arrivò sul set senza una band, con una vaghissima idea di cosa fosse stato organizzato e perché, in uno dei periodi più confusi della sua carriera; ma invece di fare la cosa più semplice (portarsi una chitarra, un’armonica, suonare la fottuta Blowing in the Wind e buonanotte – magari con Peter, Paul e Mary che si erano riuniti per l’occasione) decise di accollarsi Keith Richards e Ron Wood, in un momento in cui i Rolling Stones sembravano separati in casa: Mick Jagger aveva appena duettato con Tina Turner sullo stesso palco. L’approccio è quello di tre amici che dopo l’ammazzacaffè si fanno prestare le chitarre e strimpellano la prima cosa che gli viene in mente. Il problema è che i tre amici sono Bob-Coscienza-della-Sua-Generazione e i due chitarristi della band più famosa del mondo: a presentarli c’è Jack Nicholson e a guardarli strimpellare il mondo intero. Insomma forse presero la cosa un po’ sottogamba. A causa del peso dei loro nomi erano stati inseriti in scaletta verso la fine: non solo il pubblico era esausto, ma dietro le quinte c’era già chi brindava e festeggiava (oppure il coro di USA For Africa che stava facendo le prove: ognuno la racconta diversa e ritiene che gli ubriachi fossero gli altri). Wood e Richards sono abituati a capirsi al volo, ma dovrebbero prima capire cosa vuol fare Dylan, che sta in mezzo, non riesce a sentirsi in spia e rompe addirittura una corda – al che Wood gli presta la sua chitarra e in attesa del rimpiazzo resta sul palco a gesticolare come un ragazzino. Dietro c’è un gran baccano. Blowing in the Wind stavolta è veramente fottuta, chitarre scordate, uno strazio.

Presidenti per finta

Gregory Peck, negli anni di KO Loaded, faceva Lincoln nella serie TV “Il blu e il grigio” (e com’è ovvio ricordava terribilmente il capitano Achab).

Dicevo che in quel film Gregory Peck fa il pistolero che non ne può più – attraversa il deserto perché dall’altra parte c’è una donna che amava, addirittura un figlio che non ha mai visto. Tutto quello che vorrebbe è sistemarsi in qualche fattoria. Ma i ragazzini, i ragazzini non lo lasciano in pace. Lo sfidano, si fanno ammazzare, e a quel punto naturalmente salta fuori qualche altro ragazzino che deve vendicare l’amico, il fratello, il cognato: non finisce mai.

La breve apparizione di Dylan al Live Aid si potrebbe anche liquidare così: credeva di essere a una festicciola, si fidava di amici in realtà confusi quasi quanto lui, nessuno gli aveva spiegato che era la vedette finale di un Grande Evento Storico. Insomma un equivoco spiacevole. E però la scaletta suggerisce che non fosse del tutto inconsapevole. Come al solito la cambiò fino all’ultimo momento. Ron Wood racconta che mentre saliva sul palcoscenico lo mandò nel panico proponendo all’improvviso di intonare All I Really Want to Do: una filastrocca che forse i due Stones si erano dimenticati, ma che per Dylan vent’anni prima aveva rappresentato il primo dei tanti disimpegni: quello dal movimento politico. Al Live Aid alla fine Dylan non cantò “voglio solo essere vostro amico”, ma la storia di Hollis Brown, il contadino del Midwest che stermina la famiglia e si suicida per la fame. Una scelta non banale e apparentemente appropriata a una sera in cui si raccoglievano fondi per l’Etiopia, senonché al termine Dylan buttò lì che magari un paio di milioni dell’incasso si sarebbero potuti stornare “per pagare l’ipoteca su alcune fattorie che i contadini di qui devono alle banche”. Tirava aria di crisi anche nel Midwest rurale: il pubblico della mondovisione magari non ci aveva fatto caso, Dylan sì. Qualche mese dopo Neil Young organizzò addirittura un Farm Aid, che molti considerano direttamente ispirato dalle parole di Dylan: quest’ultimo in quell’occasione si preparò per bene con gli Heartbreakers e fece uno show di ottimo livello. Invece, nella sera in cui si teneva a battesimo il Rock Buono, Dylan arrivò ubriaco come una vecchia rockstar (con una scorta di vecchie rockstar altrettanto ubriache); non urlò “America First!” ma ci andò vicino, e prima di massacrare Blowin’ in the Wind inflisse ai due Stones e al pubblico un altro brano del passato remoto, When the Ship Comes In – vi ricordate in quale altra occasione, a dispetto di ogni ragionevolezza, aveva cercato di rovinare una festa con la stessa canzone? La marcia di Washington, esatto. E ora non c’era più Joan Baez a metterci una pezza, ma Ron Wood a fare air guitar. Magari è solo una coincidenza. Ma dopo Washington l’aveva cantata dal vivo soltanto altre due volte; non la tentava da vent’anni e dopo il Live Aid l’avrebbe accantonata per sempre. È un pezzo antipatizzante, che dice che la Salvezza arriva all’improvviso e non fa prigionieri: non è un pranzo di gala né un concertone benefico. Chi ne è degno sarà salvato, gli altri affogheranno. Amen.

E così Gregory Peck attraversava il deserto e arrivava in questa città di compensato – sai quelle cittadine western montate negli studios – e ovviamente la sua vecchia fiamma non voleva parlargli, e il figlio non sapeva chi fosse: e qualcuno aveva un conto in sospeso, o voleva soltanto farsi un nome. Ma forse sarebbe meglio che cominciassi a parlare di Knocked Out Loaded, il disco che Dylan pubblicò un anno dopo il Live Aid, ma che aveva già iniziato a registrare un anno prima, sempre un po’ qua e un po’ là senza un’idea chiara. Ai tempi pensavo che “knocked out loaded” significasse “carico di knocked out”, come un pugile pronto a mandare al tappeto l’avversario: insomma un bel titolo combattivo, ecco un disco che se non state attenti vi prende a pugni! Invece significa l’esatto contrario: allude a un KO ricevuto, si può tradurre “suonato”, “al tappeto”. Forse non avevo mai fatto caso che verso la fine Dylan canta proprio “I was knocked out and loaded in the naked night”. È che forse non ci ero mai arrivato, verso la fine. E dire che è un disco abbastanza breve. È il suo miglior pregio. Stiamo del resto parlando di un disco costruito attorno agli scarti di Empire Burlesque, le canzoni che non era riuscito a terminare in tempo per la scadenza del 1985, integrate con altri esperimenti per lo più infruttuosi del 1986. Siamo insomma al raschio del barile: qualcosa di buono ancora vien su, ma che fatica.

E infatti Gregory Peck, quando alla fine riesce a parlare alla sua ex, cala la maschera e le dice che ha finito con le pistole e i duelli e tutto quanto, e che vuole soltanto sistemarsi. Lei ovviamente è un po’ scettica; magari non è la prima volta che lo sente dire: poi nemmeno nei vecchi western in bianco e nero funzionava così, che se dopo dieci anni il pistolero fa un fischio, l’ex ragazza madre è già pronta a perdonargli tutto. Lui se ne rende perfettamente conto, e chiede un anno di tempo. Se tra un anno tornassi, e avessi rigato dritto tutto il tempo, tu me la daresti una possibilità? Capisco che non puoi darmela adesso, e nemmeno promettermela, ma prometti almeno che ci penserai? Messa in questi termini è una proposta che si può dignitosamente accettare – specie se te la propone un pur baffuto Gregory Peck…


Un altro relativo pregio di KO Loaded è la disarmante sincerità. Infidels Empire erano due dischi carichi di ambizioni, in parte giustificate in parte no. C’erano tentativi di suonare professionale, di suonare sofisticato, di suonare moderno. KO suona soltanto… suonato. È il disco di un tizio che di mestiere vende dischi e fa concerti, e prima di cominciare la stagione dei concerti deve fare uscire un disco: che sia ispirato o no. Voi andate tutti i giorni al lavoro ispirati? Dylan nel 1985/86 quasi mai. Il che non significa che non ci andasse: se uno mette in fila tutte le collaborazioni e le incisioni del periodo scopre che non stava fermo un attimo. Gli USA For Africa, il Live Aid, il Farm Aid, gli Artists United Against Apartheid fondati da “Little” Steven Van Zandt e prodotti da Arthur Baker (Dylan per la verità canta soltanto due versi, ma è stato carino da parte sua partecipare. C’era Miles Davis, i Run DMC, e nel disco c’era anche il primo vero pezzo blues degli U2, Silver and Gold, ma cantato da Bono con due amici d’eccezione tirati a lucido: Keith Richards e Ron Wood!) E poi sessioni con Dave Stewart degli Eurythmics, sessioni con gli Heartbreakers, con Al Kooper e T-Bone Burnett, sessioni con chiunque. A Cameron Crowe che lo intervistava per il libretto di Biograph aveva rivelato, con un certo sprezzo del pericolo, che stava accarezzando l’idea di pubblicare un disco di cover. È un’idea che lo aveva già portato al disastro nel 1970, ma forse chissà, col tempo aveva imparato a concentrarsi anche nel compito di interprete da studio, no?

No. 16 anni dopo Self Portrait, le cover di Knocked Out Loaded rivelano gli stessi problemi: sono brani che sembrano scelti a casaccio, arrangiati alla carlona, senza guizzi particolari ma con qualche exploit di cattivo gusto (il coro dei bambini in They Killed Him). C’è il numero rockabilly, il numero gospel, il numero reggae, ecc., e a volte sono così poco credibili che sembrano parodie: soprattutto il numero confidenziale, Under Your Spell scritto con Carole Bayer Sager che proprio per la sua totale assenza di pretese trovo molto più simpatica di tutte le ballatone di Empire. Il tutto somministrato con quell’aria Che Mi Tocca Fare Per Campare che ti lascia senza parole. Cioè stroncare KO è come fermarsi davanti a un cantiere per lamentarsi che il tizio col martello pneumatico non ci sta mettendo il cuore.

Quando l'immagine che ti piace per la copertina è rettangolare, ma il disco è quadrato, ma sei Bob Dylan e non vuoi obiezioni e allora il grafico stira tutto quanto e poi si vergogna per il resto della vita.

Quando l’immagine che ti piace per la copertina è rettangolare, ma il disco è quadrato, ma sei Bob Dylan e non vuoi obiezioni e allora il grafico stira tutto quanto e poi si vergogna per il resto della vita.

Sedici anni prima, durante un’altra fase di confusione, Dylan aveva quasi intitolato un disco “Down and Out On the Scene”, derelitto sul palco. Poi il buon senso aveva prevalso e il disco era uscito con un titolo promettente, New Morning, che aveva messo di buon umore i recensori. Chissà se avrebbe avuto lo stesso senso, con un titolo tanto diverso. Chissà che disco sarebbe Knocked Out Loaded, se non si presentasse nel modo peggiore possibile, con quella copertina vintage che al tempo era indecifrabile, e una scaletta che sembra fatta apposta per interrompere l’ascolto al decimo minuto – qualcuno per caso si ricorda che ai tempi i dischi cominciavano sempre coi tre-quattro brani che venivano estratti come singoli? Era una cosa abbastanza odiosa, ma i discografici ci tenevano molto e probabilmente avevano ragione. Gli acquirenti cominciavano ad aver fretta, e se i primi titoli sulla copertina erano gli stessi che si leggevano sui titoli di MTV magari compravano più volentieri.

The Joshua Tree (1987) comincia coi tre singoli: Where the Streets, I Still Haven't Found e With or Without You.

The Joshua Tree (1987) comincia coi tre singoli: Where the Streets, I Still Haven’t Found e With or Without You.

Knocked Out comincia nel modo più impersonale, con un paio di cover. You Wanna Ramble è un rock’n’roll senza pretese, ti dà la sensazione di entrare quando la festa è già cominciata. Il guaio è che continua con They Killed Him del vecchio compagno di cavalcate Kris Kristofferson, forse la cosa più brutta e leziosa che Dylan abbia mai inciso (per bruttezza se la gioca con Minstrel Boy, per leziosità non ha rivali). La canzone in sé non è così orribile: è un tributo ingenuo ma sincero ai tre eroi di Kristofferson (che nel 1985 erano anche i miei di lettore del Giornalino): Gandhi, Martin Luther King e Gesù. Pieno spirito del Live Aid, insomma. Dylan irrigidisce la melodia in un riff di quattro note e chiama a suonarlo il vecchio sax di Street Legal: e poi naturalmente coretti gospel, e alla fine anche i bambini. Cosa gli stava dicendo il cervello? Forse era un tentativo di piacere a quelli che avevano amato We Are the World. Cioè davvero vi piace questa roba un po’ melensa? Beh, ma la so fare anch’io. Grazie a Dio non funzionò.

Subito dopo parte Blue Monday dei New Order. Scherzo. Ma provate ad ascoltare soltanto l’attacco di Drifting Too Far From Shore, quei quattro colpi di cassa (elettronica) dritta. Potrebbe veramente essere Blue Monday. Invece come Maybe Someday è un rimasuglio di Empire Burlesque. Sono rock divertenti, perfino ballabili, ma registrati con gli orpelli technopop di Arthur Baker – senza però le rifiniture, in modo che riescono a suonare sia sintetici che approssimativi, e datati già nel 1986. Perché oltre al buonismo, il Live Aid stava anche rilanciando i suoni acustici e caldi. Dylan non era nemmeno così suonato da non accorgersene: già verso la fine di Empire aveva iniziato a collaborare con gli Heartbreakers di Tom Petty, un gruppo e un autore che nel mezzo degli anni Ottanta avevano mantenuto la barra salda in direzione di un’idea ormai a-storica del rock, che può annoiare ma è invecchiata meglio di altre cose. Got My Mind Up è un rock col classico tempo alla Bo Diddley che gli Heartbreakers portano già a un passo dal sound apocalittico di Oh, Mercy – se tutto il disco fosse stato registrato così, oggi si potrebbe anche riascoltare con soddisfazione. Purtroppo quando durante un intervallo del tour Dylan cominciò a registrare con Petty e il suo gruppo, gran parte del materiale era già pronto e non aveva più voglia di buttar via tutto come quando era giovane. Eppure nelle stesse session aveva preso forma anche Jammin’ Me, un fulminante brano sulla tv via cavo che gli Heartbreakers avrebbero poi portato in classifica. Dylan non l’ha mai suonata.

Il film è agli sgoccioli e tutto sembra andato per il meglio. Gregory Peck è riuscito a riconciliarsi con la moglie, a conoscere il figlio, a trovare una speranza per tirare avanti un altro anno. Ma proprio quando sta per ripartire a cavallo, un ragazzino gli spara alle spalle. Per nessun motivo. A parte il solito: farsi un nome. Cioè, c’è il pistolero più famoso del west in città e non gli tiri almeno una revolverata?

Le foto di cinema che piacciono a IMDb

Sam Shepard in The Right Stuff (1983).

Knocked Out Loaded sarebbe tutto qua – e sarebbe la mezz’ora di Bob Dylan meno interessante in assoluto – se non fosse per un’unica traccia di undici minuti che i dylaniti amano alla follia e che riscatterebbe tutto il mazzo. Si chiama Brownsville Girl, per un soffio non era entrata in Empire Burlesque, ed è l’unica collaborazione di Dylan col commediografo e attore e amico Sam Shepard, scomparso quest’anno. Dieci anni prima era stato arruolato da Dylan per scrivere uno straccio di sceneggiatura per Reginaldo e Clara, che lo stesso Dylan aveva sostanzialmente ignorato. In Brownsville Girl succede qualcosa di simile: se Dylan cercava qualcuno che gli aiutasse a scrivere una storia con un capo e una coda (come quelle che Jacques Lévy gli aveva tirato fuori in Desire), in Shepard non lo trovò. È una serie di bozzetti memorabili che ruotano intorno ai soliti rimpianti d’amore: Dylan sta con una donna ma non fa che pensare a un’altra che ha lasciato tanto tempo prima – forse in Messico, forse andava ad abortire, chi lo sa? Chi ci capisce qualcosa? C’è anche un conflitto a fuoco, Dylan ci si trova in mezzo per caso, scappa ma i giornali pubblicano una sua foto con la didascalia “un uomo senza un alibi”, definizione che in questo periodo gli calza abbastanza perfettamente. Come ai tempi di Visions of Johanna, non ha così importanza quel che canta, ma come lo canta. Più che cantare stavolta recita: al ritornello ci pensano le coriste, il gruppo sembra ispirarsi alla leggenda di Sad-Eyed Lady of the Lowlands, la canzone che parte già al climax e poi cerca di prolungarlo all’infinito. All’inizio di ogni strofa Dylan torna si rimette a parlare di quel vecchio film con Gregory Peck che sembra non aver nulla a che fare con la storia, con l’insistenza di un malato di Alzheimer. C’è qualcosa in quel film che forse spiegherebbe tutta la canzone, tutto il disco, tutto Dylan, ma non riesce a tirarla fuori. Non ci sta nemmeno veramente provando.

Spicy AdventuresInsomma alla fine abbiamo Gregory Peck moribondo, la sua ex che lo guarda da lontano, il suo figlio che corre a salutarlo per la seconda e ultima volta, lo sceriffo che arresta il ragazzino e lo vuole impiccare. Aspetta, gli dice Peck, non è stato un omicidio, ma un duello leale. Ho sparato io per primo, lui si è difeso. Mi prendi in giro, dice lo sceriffo? Ti ha sparato alle spalle, abbiamo visto tutti. Non importa, dice Peck, rispetta le mie ultime volontà. Sono stato io a sparare per primo, il ragazzo è innocente. Persino il ragazzo a quel punto reagisce: stai cercando di proteggermi? Non ho bisogno della tua protezione (lo sceriffo gli molla uno schiaffo). No, ragazzo, non lo faccio per proteggerti. Voglio che tutti sappiano che tu mi hai ucciso in un duello leale. Voglio che tutti ti conoscano come il più grande pistolero vivente. Voglio che tu sappia come ci si sente, a essere il più grande pistolero vivente: senza una casa, senza una speranza, braccato dai miserabili, costretto a stampare un disco all’anno a girare di città in città senza mai poter posare il cappello eccetera. E vai col coro: ragazza di Brownsville, coi tuoi riccioli di Brownsville, le perle dei tuoi denti brillano splendenti come la luna.

Nel 1986, prima della nascita di Desirée Dennis-Dylan, Bob decide di sposare la madre, Carolyn Dennis, che aveva collaborato con lui a fasi alterne da Slow Train Coming Knocked Out Loaded. Il matrimonio durerà quattro anni, e resterà segreto per altri dieci.

(Gli altri pezzi: 1962: Bob Dylan, Live at the Gaslight 19621963: The Freewheelin’ Bob DylanBrandeis University 1963Live at Carnegie Hall 19631964: The Times They Are A-Changin’The Witmark Demos, Another Side of Bob DylanConcert at Philharmonic Hall1965: Bringing It All Back HomeNo Direction HomeHighway 61 Revisited1966: The Cutting Edge 1965-1966Blonde On BlondeLive 1966 “The Royal Albert Hall Concert”, The Real Royal Albert Hall 1966 Concert1967: The Basement TapesJohn Wesley Harding1969: Nashville Skyline1970: Self PortraitDylanNew MorningAnother Self Portrait1971: Greatest Hits II1973: Pat Garrett and Billy the Kid1974: Planet WavesBefore the Flood, 1975: Blood on the TracksDesireThe Rolling Thunder Revue1976Hard Rain1978: Street-LegalAt Budokan1979Slow Train Coming1980Saved1981Shot of Love1983Infidels1984Real Live1985Empire Burlesque, Biograph1986: Knocked Out Loaded, 1987: Down in the Groove…)

Leonardo Tondelli

Da Modena. Nel 1984 entra alla scuola media, non ne è più uscito. Da 15 anni scrive su uno dei più verbosi blog italiani, leonardo.blogspot.com. Ha scritto sull'Unità e su altri siti. Sul Post scrive di Dylan e di altri santi del calendario.