Un glossario semplice per capire questo caos dei dazi e delle borse

Per capirci qualcosa di deficit commerciale, rimbalzi, indici, orsi, tori e le altre espressioni astruse che avrete sentito in questi giorni

Un trader nella borsa di New York, il 10 aprile del 2025 (AP Photo/Richard Drew)
Un trader nella borsa di New York, il 10 aprile del 2025 (AP Photo/Richard Drew)

Ogni volta che succede qualche disastro nell’economia e in borsa, i giornali si riempiono di termini tecnici e di parole astruse o gergali che in tempi normali sono usate solo nelle sale di trading, dagli economisti o dagli investitori. Capire cosa vogliono dire queste espressioni è necessario per comprendere la storia di questi giorni complicati, i dazi e i tracolli dei principali listini azionari, a causa dei trader che shortavano e che rischiavano di portarci tutti nel bear market. Alla fine c’è stato pure un bel rimbalzo del gatto morto. Ok, ora ci spieghiamo.

I dazi, cosa sono nella pratica
Partiamo proprio da cosa ha scatenato tutto questo caos, cioè i dazi. Sono un’imposta che si applica alle merci importate nel paese che li ha imposti, e hanno l’obiettivo di renderle più care, penalizzarle e favorire così la produzione nazionale. Esempio: se gli Stati Uniti mettono un dazio sulle merci importate dall’Unione Europea (e quindi anche dall’Italia), le aziende americane che vorranno comprare merce italiana dovranno pagare un’imposta al governo degli Stati Uniti. I dazi sono espressi in percentuale del valore della merce, e vanno pagati sennò resta tutto bloccato in dogana: chi importa un’ipotetica bobina di acciaio del valore di 10mila euro che entra negli Stati Uniti deve pagare oggi un dazio minimo del 25%, per esempio, dunque dell’equivalente in dollari di 2.500 euro. Qui abbiamo spiegato chi li paga nel concreto, chi li incassa, e cosa significano per le aziende che esportano in termini di costi, burocrazia e scartoffie.

Il deficit commerciale
È la differenza tra quanto un paese esporta e importa. Un deficit implica che la differenza sia negativa, cioè che un paese importi più di quanto esporti; se invece è positiva allora ha un surplus, cioè esporta più di quanto importa. Non è un problema avere un deficit, non è un problema trovarsi in un surplus: la bilancia commerciale è una condizione che riflette le caratteristiche dell’economia nazionale, della sua industria e dei suoi consumi. Un paese che importa più di quanto esporta può essere, come gli Stati Uniti, fortissimo sui servizi – che al momento non sono oggetto di dazi – e ricco abbastanza da avere grandi consumi e una forte domanda interna. Non c’è insomma una condizione più auspicabile dell’altra.

In entrambi i casi, peraltro, c’è una dipendenza dai rapporti con l’estero: nel caso del deficit si ha bisogno della merce straniera per soddisfare i propri fabbisogni e consumi interni; nel caso del surplus si ha bisogno degli altri paesi perché servono come mercati di sbocco per le merci nazionali. L’Italia, che al contrario è un paese che esporta molto più di quanto importa, soffre le conseguenze di una crisi economica in Germania, per esempio.

Se n’è parlato in questi giorni perché il cronico deficit commerciale americano è una storica ossessione di Donald Trump, che lo reputa una grossa debolezza per l’economia oltre che un danno e una scorrettezza che gli altri paesi infliggono agli Stati Uniti (è una sciocchezza infondata, e l’abbiamo spiegato qui).

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump con in mano le tabelle molto dubbie presentate alla Casa Bianca, il 2 aprile 2025 (AP Photo/Mark Schiefelbein)

Cosa sono le borse
Ok, questa è facile, ma è bene che non ci siano dubbi sul fatto che non sono niente di astratto. In borsa si comprano e vendono strumenti finanziari, e sono un luogo di incontro – ormai sempre più digitale che fisico – per chi vuole investire del denaro e per chi invece vuole raccogliere investimenti, cioè soldi. Un esempio molto semplice è pensare a voi che avete dei risparmi che volete far fruttare, e un’azienda che invece sta cercando i fondi per ingrandirsi. L’azienda vi vende un’obbligazione, voi le date i soldi. L’obbligazione è una forma di prestito, con gli interessi: vi garantisce un rendimento fino alla scadenza, quando vi verrà restituito il capitale prestato. Le borse sono perlopiù smaterializzate e telematiche, ma i loro palazzi sono sempre bellissimi: ci lavorano gli operatori e i tecnici.

Piazza Affari, a Milano, con la statua di Maurizio Cattelan e dietro il palazzo di Borsa Italiana (Lorenzo Palizzolo/Getty Images)

Le azioni, le obbligazioni e i titoli di Stato
Ci sono tantissime cose che si possono comprare in borsa. Gli strumenti finanziari emessi dalle società sono tipicamente le azioni, che sono quote delle società stessa, e rendono gli azionisti investitori e per certi versi comproprietari di quella società. Le aziende emettono pure le obbligazioni (anche dette bond), cioè titoli con cui la società promette di restituirvi alla scadenza il capitale che avete prestato, con gli interessi. Ci sono poi i titoli di Stato, cioè quelli con cui lo Stato si fa prestare dei soldi per finanziare la sua spesa pubblica, e su cui paga degli interessi: sono di fatto pezzetti del debito pubblico. In questi giorni si è parlato molto della crisi dei treasury, cioè dei titoli di Stato americani, che sono stati oggetto delle vendite di tutti quegli investitori che volevano liberarsene.

Compra! Vendi!
Qui c’è un altro meccanismo che è importante capire. Chi voleva liberarsi di un titolo americano, lo aveva comprato in passato come investimento. Possiamo immaginare che, alla luce delle scelte di Trump, abbia cambiato idea sulle prospettive dell’economia americana e quindi sul suo investimento. Per liberarsi di quel titolo deve venderlo a qualcuno. Se non è il solo ad aver cambiato idea, e abbastanza investitori vogliono liberarsi degli stessi titoli, il loro prezzo inevitabilmente scenderà, per convincere qualcuno ad acquistarli.

La discesa del valore dei titoli può spingere altri investitori a fare altrettanto, per limitare le perdite, finché la soglia raggiunta – o il cambiamento delle condizioni dell’economia americana e delle sue prospettive – renderà eventualmente di nuovo conveniente acquistare quei titoli come investimento, cosa che farebbe di nuovo crescere il loro valore e quindi il prezzo.

Rialzi, ribassi, rimbalzi: ma di cosa?
Naturalmente in ogni momento in borsa ci sono soggetti che comprano e soggetti che vendono: i risultati che leggiamo sono il risultato di tutte queste tantissime operazioni. Quando sentiamo di rialzi, ribassi e rimbalzi parliamo del prezzo dei titoli quotati in borsa, cioè del valore che dà loro il mercato (chi è il mercato: gli investitori, gli azionisti, chiunque faccia operazioni).

Il prezzo dei titoli, come abbiamo visto, è legato alla famosa legge della domanda e dell’offerta: il meccanismo è lo stesso per cui quando ci sono poche case, il loro prezzo sale; quando ce ne sono tante, il prezzo scende. Se tanti vogliono comprare, il prezzo crescerà; se tanti vogliono vendere, il prezzo scenderà. C’è un rialzo quando prezzi e valori aumentano, c’è un ribasso quando diminuiscono. Il termine “rimbalzo” si usa quando le borse salgono dopo un momento di forte calo.

Attenzione, però: il prezzo dei titoli non deriva solo dal risultato delle operazioni finanziarie. Al contrario, le operazioni finanziarie sono il risultato delle caratteristiche specifiche dell’azienda o della nazione a cui si riferiscono, e delle previsioni sulle sue prospettive future: è solida e in salute? Pensiamo che andrà bene in futuro? O è in crisi? Quanto è forte la concorrenza? Come giudichiamo i suoi progetti futuri? Quali sono i rischi? Cosa dicono i dati?

«Le borse hanno bruciato X miliardi di euro»
In periodi di forte calo dei mercati finanziari può capitare di leggere che «le borse hanno bruciato X miliardi di euro», un’espressione comune nel linguaggio dei media ma che non ha senso sul piano economico. Nelle intenzioni di chi la usa c’è il tentativo di quantificare il valore di quanto sono scesi i prezzi di tutti i titoli quotati in borsa. Quello che ne risulta è un numero un po’ fuorviante: qui abbiamo spiegato nel dettaglio perché.

I trader quando leggono che le «borse hanno bruciato soldi», o quando le cose si mettono davvero male (AP Photo/Richard Drew)

Listini, indici, FTSE MIB, Dow Jones, Nasdaq: eh?
Per misurare i cali o i rialzi delle borse si usano i cosiddetti indici, cioè dei numeri che sintetizzano come va un certo gruppo di titoli accomunati da qualcosa: sono chiamati anche listini perché sono proprio una lista di titoli. Servono per farsi un’idea di come vanno le aziende di un certo settore oppure la borsa di un determinato paese.

Per esempio: sulla borsa di Milano l’indice più importante è il FTSE MIB (si legge futsi mib), sotto cui ricadono le 40 azioni più importanti di tutta la borsa, per dimensione e rilevanza delle aziende a cui si riferiscono. Se volete vedere com’è andata la borsa di Milano in questi giorni non vi servirà guardare come sono andati tutti i titoli, ma per farvi un’idea vi basterà vedere com’è andato il FTSE Mib: la borsa tedesca ha il DAX 40, quella francese il CAC 40, e così via. Ci sono poi il Dow Jones e il Nasdaq, i due indici più conosciuti della borsa statunitense: il primo raggruppa le 30 principali aziende più tradizionali, il secondo le prime 100 tra quelle tecnologiche.

Gli indici si misurano in punti e non in euro o in dollari, perché in questo modo sono più agevoli i confronti nel tempo: per esempio, il FTSE MIB vale oltre 34mila punti, più di tre volte il valore di 10mila punti che aveva nel 1992 (quando ancora si chiamava COMIT 30). Dietro all’indice ci sono comunque dei valori in euro, ossia quanto valgono complessivamente tutte le azioni delle 40 aziende che comprende: a fine febbraio erano circa 795 miliardi di euro.

Bear e bull market, la strana ossessione della finanza per gli animali
In finanza si usano nomi di animali, l’orso e il toro, per indicare rispettivamente una tendenza a ribasso del mercato e una al rialzo. Si dice che siamo in un cosiddetto bear market (o mercato dell’orso) quando gli indici di riferimento arrivano a scendere di più di 20 punti percentuali dall’ultimo picco positivo; un bull market (o mercato del toro) è il contrario, cioè quando gli indici arrivano a superare di più di 20 punti percentuali l’ultimo picco negativo.

L’uso dei due animali non è casuale. L’orso è un animale più sonnacchioso, che va in letargo, e indica un mercato in generale più moscio: è anche quello che con una zampata butta a terra chi si trova davanti. In queste settimane di grandi ribassi gli analisti sono arrivati a indicare l’avvicinamento a un bear market, anche se ancora non è successo. Al contrario il toro è solito spingere con le corna verso l’alto, ha un atteggiamento più esuberante e agitato, ed è il simbolo di un mercato rialzista: vicino a Wall Street, dove ha sede la borsa di New York, c’è proprio la famosa statua di un toro.

Il “Charging Bull” di Wall Street, a New York, realizzato dallo scultore italiano Arturo Di Modica (AP Photo/Mark Lennihan, File)

C’è pure di mezzo un gatto morto
Gli eventi di questi giorni sono utili anche per spiegare la terza espressione finanziaria che scomoda un animale, cioè il dead cat bounce, che in italiano è il “rimbalzo del gatto morto”: si usa quando un mercato in calo ha un breve e momentaneo rialzo, dovuto a ragioni fisiologiche o come reazione a notizie momentanee, ma poi torna a scendere, perché di fatto non aveva veri motivi per crescere. L’espressione viene dal detto per cui anche un gatto morto rimbalza se fatto cadere da molto in alto. Un esempio: dopo l’eccezionale rialzo a seguito del rinvio dei dazi deciso da Trump, le borse americane sono tornate a scendere perché di fatto la situazione economica generale è ancora molto instabile, a causa dei dazi alla Cina e dei continui ripensamenti del presidente.

La volatilità e l’indice della paura
È così che i giornali italiani chiamano spesso l’indice Vix, quello che misura quanto un mercato è instabile: considera la volatilità di un certo gruppo di titoli, cioè quanto sono soggetti a forti oscillazioni sia al rialzo che al ribasso. Si può pensare alla volatilità come al tracciato di un sismografo: linea piatta significa variazioni contenute, e bassa volatilità; una linea che inizia a oscillare con movimenti ampi in su e in giù indica alta volatilità, e il rischio per un investitore di poter guadagnare tantissimo ma anche di perdere altrettanto. I prezzi cambiano molto in fretta ed è difficile fare previsioni. L’indice Vix è aumentato di più del 50 per cento nell’ultimo mese, e di quasi il 100 per cento negli ultimi sei: quando la volatilità è così alta investire sui mercati finanziari diventa più simile a una scommessa che a un investimento ragionato sui normali fondamenti economici.

Buy the dip, compra il calo
È un’espressione con cui si indica la scelta di comprare un titolo dopo che ha perso molto valore, quindi in un momento di forte ribasso. Del resto si possono fare buoni affari quando si compra un titolo a un prezzo stracciato, con la prospettiva di rivenderlo quando salirà. Se salirà, però. Magari continuerà a scendere. È molto difficile capire in anticipo i tempi e le direzioni dei mercati, e quindi sapere quando e se ci si trova un momento di minimo, o quanto ci metterà il prezzo a risalire. Comprare al ribasso comporta certi rischi, ma è anche quello che potrebbero aver fatto i miliardari che hanno guadagnato tantissimo dopo il grosso rialzo seguito al rinvio dei dazi, anche grazie a dei sospetti suggerimenti di Trump ai mercati.

“Shortare”, o meglio vendere allo scoperto
Una cosa che potrebbero aver fatto gli investitori più furbi nel momento di massimo picco di questi giorni è invece “shortare”, cioè vendere allo scoperto: significa vendere un titolo prima ancora di averlo comprato, con la promessa di consegnarlo in un secondo momento. Chi vende un titolo che non possiede pensa che in futuro il prezzo sarà più basso, e quindi otterrà un profitto. Te lo vendo adesso, te lo darò tra una settimana; tu lo paghi al prezzo di oggi, io lo compro al prezzo della prossima settimana. Se nel frattempo il prezzo è sceso, ho vinto; se è cresciuto, ho perso.

È una scommessa. In un momento che si ritiene di picco, se si pensa che quel titolo scenderà, si vende un’azione a 100 euro con la promessa di consegnarla il giorno dopo, quando effettivamente andrà comprata per darla all’acquirente. Se chi ha shortato ci ha visto giusto, al momento di comprare quella azione costerà meno, diciamo 80, quindi otterrà un profitto di 20; se ha sbagliato costerà di più, diciamo 120, e quindi ci ha rimesso 20.

Un meme che mostra la condizione di quelli che stavano shortando prima del grosso rialzo delle borse statunitensi, a causa il rinvio dei dazi: ci hanno rimesso parecchi soldi

Aggiotaggio e insider trading
Sono due reati che si possono commettere attuando pratiche considerate scorrette sui mercati finanziari. L’aggiotaggio, conosciuto anche come manipolazione o turbativa dei mercati, viene commesso da chi diffonde informazioni – vere o false che siano – allo scopo di condizionare intenzionalmente l’andamento complessivo dei mercati. Un esempio di questi giorni potrebbe essere il post sui social con cui Donald Trump ha suggerito di comprare azioni prima che annunciasse il rinvio dei dazi, suggerendo agli investitori di tutto il mondo che qualcosa stava per succedere e che fosse conveniente comprare.

Fare insider trading significa invece sfruttare informazioni riservate per operare sui mercati, traendone ovviamente un vantaggio. Anche in questo caso un esempio potrebbe essere il sospetto arricchimento di persone vicine a Trump, che potrebbero aver ricevuto la soffiata che stava per annunciare il rinvio dei dazi che avrebbe fatto rialzare i mercati.

Trump che dice quanti milioni di dollari hanno guadagnato alcune persone intorno a lui