Che posto è il Darfur
La grossa regione del Sudan, ancora controllata quasi interamente dalle Rapid Support Forces, ha una lunga storia di guerre e scontri etnici

Dopo aver perso il controllo della capitale Khartum, la scorsa settimana, i miliziani delle Rapid Support Forces si stanno spostando verso l’ovest del Sudan: è probabile che siano diretti in Darfur, una regione che ancora controllano in buona parte. È una zona poverissima, dove circa metà della popolazione dipende dagli aiuti umanitari. Ora il fronte della guerra civile, in corso da quasi due anni, potrebbe spostarsi lì, peggiorando una situazione già tragica.
Il Darfur è un’enorme regione nella parte sud-ovest del Sudan, grande una volta e mezzo l’Italia e suddivisa amministrativamente in cinque stati. Confina a nord con la Libia, a ovest con il Ciad, a sud con la Repubblica Centrafricana e con il Sud Sudan. Secondo le stime delle Nazioni Unite ci abitano 12 milioni di persone, ma è difficile saperlo con esattezza a causa delle guerre che negli ultimi vent’anni hanno costretto molti a spostarsi, soprattutto verso il Ciad.
Il territorio del Darfur è per metà verdeggiante, con piccoli arbusti e alberi da frutto, e per metà molto arido, soprattutto a nord, dove si fonde con il deserto libico. È anche remoto: Al Fashir, la città più grande, dista circa mille chilometri dalla capitale Khartum, i collegamenti sono pochi e malmessi e con la stagione delle piogge diventano impraticabili.
La popolazione è principalmente musulmana, composta da persone di etnia araba e altre appartenenti a decine di gruppi etnici locali, tra cui i fur (Darfur significa proprio “terra dei fur”). Gli scontri tra i vari gruppi vanno avanti da tempo, anche a causa delle loro diverse abitudini di vita: semplificando, gli arabi sono principalmente nomadi e vivono di allevamento, soprattutto di bovini e cammelli, mentre gli altri gruppi etnici, tra cui i fur, sono sedentari e dediti all’agricoltura.
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Come detto il Darfur non ha molte risorse, e quelle presenti sono sempre state contese. Piccoli e medi scontri sono sempre nati per il controllo dei pozzi d’acqua o dei pascoli, per lo sconfinamento delle mandrie sui terreni agricoli o per il furto di bestiame. Negli ultimi decenni il cambiamento climatico ha reso tutto più complicato, aggravando le ricorrenti siccità, riducendo i pascoli e rendendo i raccolti più imprevedibili.
All’inizio degli anni Duemila gli scontri sfociarono in una cruenta guerra civile. Nel 2003 alcuni gruppi armati locali, composti perlopiù da persone di etnia non baggara (quindi non araba), insorsero contro il governo del dittatore Omar al Bashir, accusandolo di discriminazioni e di mancanza di tutele nei loro confronti. Per combattere le rivolte al Bashir assoldò i janjawid, un termine che si può tradurre dall’arabo come “diavoli a cavallo”: miliziani arabi di etnia baggara che uccisero e torturarono decine di migliaia di persone, saccheggiando e distruggendo numerosi villaggi e compiendo atrocità di vario genere contro i civili.
La guerra in Darfur durò tre anni, fino al 2006: in quel periodo l’azione congiunta di miliziani e soldati dell’esercito uccise 300mila persone, secondo le Nazioni Unite. Gli sfollati furono circa 3 milioni.

Rifugiati del Darfur ad Adré, in Ciad, aprile 2024 (Dan Kitwood/Getty Images)
Per le violenze commesse durante il conflitto in Darfur i janjawid furono accusati di vari crimini di guerra e crimini contro l’umanità. La Corte penale internazionale emise anche un mandato di cattura contro al Bashir con l’accusa, tra le altre, di genocidio (Bashir però è ancora in carcere in Sudan, non è mai stato consegnato alla Corte, nonostante le promesse del governo).
Le Rapid Support Forces che oggi combattono la guerra civile contro l’esercito del Sudan discendono direttamente dai janjawid, e sono state a loro volta accusate di commettere atroci violenze contro i civili: hanno saccheggiato negozi, ospedali e villaggi, incendiato decine di città, commesso omicidi su base etnica, stupri e altri crimini sessuali nei confronti di donne e ragazze. Durante la guerra anche l’esercito ha compiuto delle stragi, tra cui una a fine marzo, quando ha bombardato un mercato pieno di civili proprio nel Darfur.
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La guerra civile in corso ora iniziò nell’aprile del 2023 a causa di uno scontro tra due generali: Adbel Fattah al Burhan, a capo dell’esercito, e Hamdan Dagalo, detto Hemedti, che dirige le Rapid Support Forces. I due erano a capo di una dittatura militare ma nel dicembre del 2022, su pressione internazionale, acconsentirono ad avviare una transizione democratica. Quando però Burhan decise di integrare le Rapid Support Forces nell’esercito regolare, Dagalo si oppose duramente, attaccando Khartum e prendendo rapidamente il controllo del palazzo presidenziale.
Da lì i combattimenti tra esercito e Rapid Support Forces si sono estesi ad altre zone del paese, tra cui appunto il Darfur. Tra le altre cose, nella città di Nyala i miliziani hanno saccheggiato l’ospedale pediatrico di Emergency, rubando persino i materassi e arrestando lo staff locale. Quando a novembre del 2023 presero la città di El Geneina, vicino al confine con il Ciad, l’ONU stima abbiano ucciso tra le 10mila e le 15mila persone.
Dall’inizio della guerra civile le condizioni già complicate dei civili in Darfur sono peggiorate. Da due anni manca l’elettricità, che si può ottenere solo usando generatori alimentati a carburante: un’opzione molto costosa, dato che la benzina costa più di 3 euro al litro. Trovare acqua potabile è sempre più difficile, così come comunicare con l’esterno: internet è accessibile soltanto attraverso Starlink, il servizio di telecomunicazioni di Elon Musk, che però può essere sospeso in qualsiasi momento.
La situazione peggiore è quella del capoluogo Al Fashir, controllato dall’esercito ma assediato da quasi un anno dalle Rapid Support Forces. Secondo le stime dell’Unicef ci abitano ancora 900mila persone. A causa dei combattimenti molto intensi nell’ultimo periodo le organizzazioni umanitarie hanno dovuto lasciare la zona, e si è interrotta anche la consegna degli aiuti umanitari. È difficile sapere come siano le condizioni in città perché l’esercito ha appunto staccato internet per ragioni militari.
Attorno ad Al Fashir si sono creati due campi profughi, uno dei quali si trova una ventina di chilometri a sud della città ed è il più grande in Darfur. È conosciuto come Zamzam e sempre l’Unicef (tra le poche organizzazioni rimaste in zona) stima che ospiti 750mila persone. Nel campo le condizioni umanitarie sono pessime: ci sono continue violenze, mancano i beni di prima necessità e i pochi che si trovano sono arrivati a costare tre volte tanto. Il campo è stato anche bombardato numerose volte negli ultimi due anni.