Ai maori non piace che Hoka si chiami Hoka
L'azienda di scarpe prende il nome da una parola della popolazione indigena neozelandese, ma non fa molto per riconoscerlo

Un gruppo di esperti che si occupa di proteggere le proprietà intellettuali dei maori, la popolazione polinesiana nativa della Nuova Zelanda, ha accusato di appropriazione culturale la famosa azienda franco-statunitense di scarpe da corsa Hoka, il cui nome deriva da una parola maori – “hoka”, per l’appunto – traducibile più o meno come “volare”.
Fino a 13 anni fa Hoka menzionava sul suo sito e sui suoi prodotti l’origine del nome del marchio, attribuendolo esplicitamente «all’antica lingua maori»: dal 2012, con l’acquisizione da parte dell’azienda statunitense Deckers Brands, questa pratica è stata però interrotta.
Lynell Tuffery Huria, avvocata specializzata in tutela della cultura maori, ha detto al Guardian che la condotta di Hoka potrebbe violare il cosiddetto tikanga, il diritto consuetudinario dei maori, che tra le altre cose regola l’utilizzo della lingua, dei simboli e dell’arte della comunità.
Il tikanga prevede che, prima di usare a fini commerciali parole maori, i marchi debbano avere un confronto con le comunità indigene, e che debbano sempre menzionare il loro significato originario: tutti i marchi che utilizzano l’immaginario maori senza seguire queste indicazioni sono potenzialmente contestabili, ha detto Huria. «Se vuoi usare una parola maori, devi capire perché la stai usando. Se non sei disposto a rispettare i valori della comunità, a capire perché stai usando quella determinata parola, allora non dovresti farlo: limitati all’inglese», aveva detto Huria in un’altra intervista.
Anche due modelli di scarpe dell’azienda utilizzano parole maori senza esplicitarlo chiaramente: le Arahi (traducibile come “guidare”) e le Hopara (“esplorare”). Da quando Deckers Brands ha acquisito il marchio, Hoka ha citato i maori soltanto una volta: in un video del 2019 pubblicato sulla sua pagina Facebook in cui il cantante neozelandese Tiki Taane spiegava a dei bambini come pronunciare correttamente il nome.
Secondo Karaitiana Taiuru, un altro avvocato specializzato nella tutela della proprietà intellettuale maori, l’azienda dovrebbe premurarsi di pronunciare nel modo corretto la parola “hoka” in tutte le occasioni, perché «non farlo dimostra una grande mancanza di rispetto». Inoltre, ha aggiunto Taiuru, consultare preventivamente le comunità indigene prima di dare un certo nome a un prodotto è importante per evitare di mettere in atto pratiche che i maori considerano oltraggiose. È il caso per esempio della parola “Arahi”, che in alcuni contesti ha un significato sacro. «Mettere qualcosa di sacro ai propri piedi è un po’ come dire implicitamente che non si ha alcun rispetto per una certa cultura: è piuttosto offensivo», ha aggiunto Taiuru.
Negli ultimi anni diversi marchi internazionali sono stati criticati per aver utilizzato parole e immagini maori a fini economici, mentre alcuni personaggi molto noti che avevano deciso di tatuarsi il volto – una pratica rituale molto diffusa tra i maori, chiamata moko – sono stati accusati di appropriazione culturale per aver utilizzato un elemento tipico di una popolazione indigena senza saperne nulla. Successe per esempio al pugile Mike Tyson, dopo che si era tatuato parte del volto, e allo stilista Jean-Paul Gaultier, che aveva usato il moko per truccare modelli bianchi.
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