Perché l’Italia esce sempre male quando si parla di stipendi

Ci sono nuovi dati che lo confermano: abbiamo i salari più bassi e quelli che crescono meno tra le grandi economie

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In Italia gli stipendi dei lavoratori e delle lavoratrici sono praticamente gli stessi dall’inizio degli anni Novanta, più di trent’anni e almeno due crisi economiche fa, mentre in Francia nello stesso periodo sono cresciuti del 25 per cento e in Germania del 20. Rispetto alla crisi economica del 2008, poi, gli stipendi in Italia sono oggi persino più bassi dell’8,7 per cento in termini reali, cioè al netto dell’inflazione: significa che le persone possono fare o comprare meno cose con i soldi che guadagnano. È il risultato peggiore tra le grandi economie, secondo quanto calcolato dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro, ed è diretta conseguenza dei molti problemi di lungo corso dell’economia italiana.

Fonte: ILO

Il problema principale è che l’economia italiana non è sostanzialmente cresciuta da allora, impedendo agli stipendi di crescere di conseguenza: oggi in Italia il PIL – il Prodotto Interno Lordo, cioè la migliore approssimazione di come va l’economia – è solo leggermente superiore agli inizi degli anni Duemila.

Andrea Garnero, economista dell’OCSE esperto di mercato del lavoro, ha scritto sulla Stampa che molto dipende innanzitutto dalle scelte industriali del paese, che ha puntato più sui settori tradizionali (e che pagano peggio) che su quelli più innovativi e ad alta potenzialità di crescita: le cause degli stipendi cronicamente bassi «sono anche da ricercare in una narrativa diffusa che ci ha portati a credere che “il turismo è il petrolio dell’Italia” o “l’edilizia è il motore della crescita” o nel consolatorio slogan “piccolo è bello”». Ci sono ovviamente delle eccezioni, ma non bastano a sostenere la crescita.

Un altro problema, a questo legato, è che dall’inizio degli anni Duemila è rimasta ferma anche la produttività del lavoro: semplificando, significa che il reddito prodotto da ciascun lavoratore è rimasto più o meno lo stesso, mentre è aumentato negli altri grandi paesi. Non significa che i lavoratori italiani sono più pigri degli altri, ma che sono meno istruiti e formati, che spesso sono inseriti in aziende piccole e inadeguate alla concorrenza internazionale, inefficienti perché lente a innovare processi e tecnologie, azzoppate da una legislazione poco chiara e una burocrazia onerosa.

– Leggi anche: Le scarse competenze dei lavoratori italiani

Il tutto è poi peggiorato da alcune caratteristiche dei sindacati italiani, ma non perché siano particolarmente potenti: semmai il contrario. Gran parte degli aumenti di stipendio in Europa passa infatti dai rinnovi dei cosiddetti contratti collettivi: contratti standard diffusissimi in tutta Europa e in Italia, negoziati a livello nazionale dai sindacati (le organizzazioni che rappresentano i lavoratori) e dalle associazioni datoriali (che rappresentano le aziende) e che coinvolgono tutti i lavoratori appartenenti allo stesso settore, a prescindere da dove vivano e dal fatto che siano o no iscritti al sindacato.

I contratti collettivi durano per un periodo prestabilito, solitamente un triennio, dopo il quale sindacati e associazioni datoriali devono rinegoziarne le condizioni: è proprio in queste occasioni che si contrattano aumenti di stipendio che valgano per tutti i lavoratori sottoposti a questi contratti, a prescindere dalla produttività loro e della loro azienda. In Italia il rinnovo dei contratti è un processo lentissimo, tanto che secondo l’ISTAT nel 2024 il 50 per cento dei lavoratori italiani aveva un contratto scaduto. Tra una rinegoziazione e un’altra passano anche diversi anni, in cui gli stipendi restano fermi.

I dati mostrano invece che il livello dei salari non ha molto a che vedere con le tasse sul lavoro, citate molto spesso nel dibattito sugli stipendi, vedi il famoso cuneo fiscale: sono alte ma in linea con il resto dei principali paesi europei. L’inflazione degli ultimi anni ha ulteriormente aggravato le cose: da gennaio 2021 a febbraio 2025 i prezzi sono aumentati complessivamente di quasi il 18 per cento, mentre le retribuzioni contrattuali dell’8,2, cioè meno della metà.

Secondo l’OCSE l’Italia è tra i paesi in cui la perdita di potere d’acquisto è stata più consistente: nel terzo trimestre del 2024 le retribuzioni italiane erano ancora del 7,4 per cento più basse in termini reali rispetto al primo trimestre del 2021. L’Italia è il terzo paese dell’OCSE per dimensione di questo divario, dopo Repubblica Ceca e Svezia: in Spagna erano più basse del 4,3 per cento, in Germania del 2,3, e in Francia del 2,1.

Il 2024 è stato però il primo anno dal 2020 in cui in Italia gli stipendi sono cresciuti in media più del costo della vita: sono saliti del 3,1 per cento, mentre l’inflazione è stata dell’1 per cento. Nell’ultimo anno ci sono stati infatti alcuni rinnovi contrattuali importanti – come quello del commercio, che tutela la maggior parte dei lavoratori nel settore dei servizi – e le retribuzioni medie sono dunque salite.

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