• Libri
  • Mercoledì 26 marzo 2025

Cinque anni ad ascoltare progettini, a Livorno

L'ex assessore alla Cultura Simone Lenzi racconta in un libro la sua esperienza, e la sua drastica conclusione

(Getty Images)
(Getty Images)

La voce di Wikipedia su Simone Lenzi si affanna a elencare tutte le sue diverse qualifiche: «è un cantautore, scrittore e traduttore italiano, frontman del gruppo toscano Virginiana Miller», dice, ma aggiunge subito che «dal 18 giugno 2019 al 10 ottobre 2024 è stato Assessore alla Cultura nel comune di Livorno». Lenzi infatti è stato conosciuto a lungo per la sua band e per il suo lavoro di scrittore e sceneggiatore, prima di assumere il ruolo e la visibilità cittadine di assessore della sua città per il primo mandato del sindaco Luca Salvetti, e venire confermato per il secondo mandato, ottenuto al primo turno anche grazie al contributo della lista civica presentata dallo stesso Lenzi (che è stato anche autore per il Post). Pochi mesi dopo, però, Lenzi è stato costretto a dimettersi su richiesta del suo stesso sindaco per le polemiche generate da tre vecchi tweet accusati di transfobia, ripescati dopo che un altro tweet contro il Fatto Quotidiano gli era stato contestato da quel giornale.

Adesso Lenzi ha pubblicato per l’editore Linkiesta Books un breve racconto della sua esperienza da assessore, intitolato Malcomune, diviso tra una parte che descrive il contesto di quel quinquennio e del suo lavoro, e una che spiega la sua versione di come sono andate le cose che hanno portato alle sue dimissioni, con un brillante misto di irritazione e rassegnazione, sintetizzato dall’espressione «vi amo tutti ma andate anche tutti affanculo».

E tuttavia non sarei onesto se dicessi che dal giorno della mia defenestrazione abbia provato solo dolore e amarezza, perché sarebbe ingeneroso verso tutto l’affetto ricevuto e falso rispetto a quella parte di me che invece cominciava a sperimentare una strana e indefinibile dolcezza, un sentimento di piacevole accettazione che credo accomuni molti esseri umani che hanno sperimentato un lutto, un rovescio della sorte o, in generale, qualcosa che li ha privati di un fondamento esistenziale.
Senza la mia città e senza lavoro, senza il ruolo in cui mi ero riconosciuto per cinque anni e mezzo, sentendomi ormai come in quel verso di Vittorio Sereni, «nulla, nessuno, in nessun luogo, mai», cominciavo per contro a provare anche una specie di speranza, un fiat voluntas tua assoluto che mi toglieva definitivamente dalla paura e mi rimetteva al mondo. Mi trovavo, a volte, a sorridere da solo, non saprei dire neanche perché.

Questo è uno dei capitoli iniziali del libro, dedicato alle routine quotidiane degli incontri con i cittadini in cerca di finanziamenti.

*****

In un giorno qualunque, davanti a un profluvio di mail, prima che la segretaria ammettesse, uno via l’altro, gli astanti di quel lungo e inarrestabile ambulatorio, l’Assessore stentava a compilare l’autocertificazione del suo stato patrimoniale. Si era fermato alla prima domanda, per lui incomprensibile, come forse per chiunque non fosse dottore commercialista. Ma chi se ne frega – pensava – lo farò domani. Entrasse pure il primo della serie interminabile di appuntamenti che solitamente l’Assessore aveva in agenda con tutti coloro che, per un verso o per l’altro, non si erano contentati di restare schiacciati al primo livello della piramide di Maslow, ma i cui spiriti animali, via via rarefacendosi, si erano sublimati fino ai piani più alti, fino cioè ad affacciarsi alla sua porta.

L’Assessore alla Cultura della città di provincia è, del resto, quella figura cui di solito ci si rivolge, in cerca di qualche spicciolo, quando si ha un progetto. Avrei un progettino, si dice anzi all’Assessore, che infatti anche quando cammina per strada, rasenta i muri e spera che nessuno lo riconosca, perché sa bene che intorno a lui c’è sicuramente qualcuno pronto a fermarlo con un progettino. Dove però il diminutivo non deve far pensare che l’estensore del progettino, ancorché lo chiami così, pensi davvero che la sua proposta sia di poco momento, perché anzi chiunque varchi la soglia dell’Assessore alla Cultura lo fa nella convinzione che l’oggetto del suo interesse, per il quale appunto sta andando a piatire soldi pubblici, sia precisamente ciò che manca, non solo alla città, ma alla Nazione, e in qualche caso persino al pianeta, perché finalmente non solo la città, ma la Nazione, e in qualche caso l’umanità intera possa fare quel decisivo passo in avanti che farà dei concittadini, dei compatrioti e in qualche caso di tutti i nostri simili degli esseri finalmente umani, affrancati per sempre da questo stato di ferinità ignorante in cui tutt’oggi ci dibattiamo. […]

Che entrasse pure X a presentare il progettino, dove X stava per qualcuno che aveva scritto una mail della quale la segretaria gli aveva sicuramente parlato e a cui lui aveva dato la consueta risposta: «Fissa pure un appuntamento».

Perché negli anni del disamore generale per la politica e per le istituzioni, la linea era quella di riavvicinare i cittadini al Palazzo. Per questo, quindi, si ascoltavano sempre tutti, si aprivano le porte, si spalancavano, e anzi si chiedeva a tutti partecipazione, coinvolgimento, nell’idea che la casa comunale fosse la casa di tutti e tutte, in modo che tutti e tutte quelli e quelle con un progettino potessero trovare se non sempre i danari almeno l’ascolto nelle stanze del Palazzo, sentendosi a casa loro, e di fatto, una volta entrati, comportandosi come si comporterebbero a casa loro, nella massima informalità, ricevuti con la massima bonomia. Perché la cosa più importante era che i cittadini, una volta entrati in Comune, fossero a casa loro, fino al punto che c’erano giorni in cui si aveva persino paura di disturbarli, motivo per cui gli impiegati, gli assessori, il Sindaco, tutti coloro che insomma erano in Comune a lavorare, entravano nei loro uffici in punta di piedi, con riguardo, per non disturbare il bivacco di cittadini a casa loro.

Ma questo qualcuno per cui stava X, di volta in volta, poteva essere la rappresentante di una compagnia teatrale, il rappresentante di una compagnia teatrale, i rappresentanti di una compagnia teatrale (che erano venuti in tre, a sottolineare la coralità del progettino), quelli che fanno teatro rappresentando l’occorrenza più probabile fra coloro che comparivano sulla soglia dell’Assessore alla Cultura, dal momento che il teatro è quella forma espressiva in crisi che risponde a questa crisi con una crescita esponenziale di compagnie, laboratori, corsi di teatro, fino al punto che, ormai, quando l’Assessore vedeva uno prendere l’ascensore, non era più certo che si trattasse di qualcuno che effettivamente stava prendendo l’ascensore, perché poteva benissimo trattarsi dell’ennesimo demolitore della quarta parete sorpreso in mezzo a una performance.

Le montagne di macerie derivanti dalle cadute di tutte le quarte pareti possibili e immaginabili, del resto, sono davanti agli occhi di tutti, tutti i giorni. Ma era altresì chiaro all’Assessore che, sotto le macerie della quarta parete, il teatro non era affatto morto. Per quanto in crisi, si era piuttosto trasformato in un organismo composito e pluricefalo che, nutrendosi delle macerie di tutte quelle quarte pareti, ingrassava di giorno in giorno, scomponendosi e moltiplicandosi in tutti i modi biologicamente possibili, agamici o gamici che fossero, di fatto però sempre avvinghiandosi come l’edera alla pianta del bilancio comunale, dalla quale l’organismo teatrale traeva sostentamento, proprio grazie alla lamentazione teatrale di una crisi le cui origini ogni articolazione di quell’organismo raccontava a modo suo, ma che, a ben vedere, erano pur sempre riconducibili al fatto che l’ingordigia dell’organismo teatrale aveva portato quest’ultimo a divorare il suo stesso pubblico, essendo di fatto ormai impossibile trovare un solo spettatore che non fosse a sua volta anche attore, regista o scrittore di monologhi teatrali, e che, proprio in quanto tale, mal tollerava l’esistenza di altri attori, registi o scrittori di monologhi teatrali.

Per quanto infine il progettino di X mirasse al coinvolgimento delle scuole primarie e persino degli asili infantili, nella speranza che l’organismo teatrale riuscisse ad allevare quei cuccioli che avrebbe divorato appena fossero stati grandi abbastanza da iscriversi a un corso di teatro, la verità, sempre nascosta, ma non per questo meno vera, era che qualunque articolazione dell’organismo teatrale, avendone la possibilità, avrebbe tagliato persino i capitoli di bilancio impegnati per il riscaldamento degli asili e chiuso le mense scolastiche, affamando così quegli innocenti, pur di dirottare la spesa corrente verso le compartecipazioni comunali ai progettini, in modo che attori e attrici potessero continuare ad aspettare per sempre Godot. In modo che, facendosi largo fra quegli innocenti malnutriti e intirizziti dal freddo, potessero dire eh già, mio padre era un contadino… ed eccomi qua, gilet bianco, scarpe gialle, e con questo muso da maiale in mezzo ai signori, scandendo ogni parola come se fosse l’ultima, esalata sul letto di morte dopo una penosa agonia.

Era tuttavia possibile che X avesse a che fare con le arti figurative, nel qual caso l’Assessore poteva davvero aspettarsi di tutto. Mentre infatti l’Assessore aveva ormai preso una certa confidenza con l’organismo teatrale, che è una bestia tanto avida quanto ammansita dalla lunga pratica dei bandi regionali, ministeriali e dell’Unione Europea, per cui il sacro fuoco dell’arte covicchia, certo, ma sotto quintali di burocrazia, trovava invece ancora una certa difficoltà nel domare i pittori, ciascuno dei quali avrebbe preteso una personale ai Granai del Museo Fattori, ritenendo la mostra ai Granai del Museo Fattori una consacrazione, se non addirittura un’apoteosi, in ogni caso, l’esorcismo indispensabile contro la maledizione di Modigliani, di cui però si racconterà meglio più oltre.

A differenza dell’organismo teatrale, comunque, che è una bestia furba, abituata a sopravvivere in condizioni estreme, i pittori fanno forza sulla loro ingenuità, sul candore disarmante della loro ambizione, e per questo all’Assessore riusciva più difficile arginarli. Se ad esempio il pittore era un vecchio pittore, ecco che si presentava con la figlia, ed era sempre la figlia a parlare, mentre il pittore si limitava ad annuire: babbo non ha mai avuto quel che meritava dalla città. Guardi, le ho portato il catalogo della collettiva che fece a Monaco nel ’76, e questo è il catalogo della mostra di Forlì dell’83. Ma a Livorno se lo sono dimenticato, anzi… se lo sono voluti dimenticare.

L’Assessore sapeva che c’era sempre un momento in cui la figlia del pittore ventriloquo spandeva intorno alle avverse fortune pittoriche del padre, che annuiva, un alone di mistero e di complotto, per il quale loro, quelli, i soliti noti che non si sa se fossero critici, politici, o colleghi invidiosi, avevano fatto in modo che ad oggi non fosse ancora realizzata la mostra ai Granai del Museo Fattori, ottenuta la quale il padre pittore avrebbe potuto finalmente chiudere in gloria la sua parabola artistica e umana. Ecco allora che nella fattispecie del vecchio pittore con figlia, l’Assessore si trovava di fronte a un groviglio di dubbi e di interrogativi etici insolubili, perché avrebbe potuto accondiscendere alla richiesta, affrettando però in questo modo la dipartita del pittore finalmente pacificato col mondo, ma avrebbe anche potuto rimandare indefinitamente la possibilità di una mostra ai Granai del Museo Fattori, lasciando così il pittore all’affetto dei suoi cari che, con lui, avrebbero continuato a lottare per l’ambito riconoscimento, con il rischio però che questa ennesima frustrazione si rivelasse fatale per la fibra del vecchio pittore.

Da una parte, poi, la prima opzione avrebbe liberato la figlia dall’ingombro dell’ambizione paterna, consentendole di dipingere finalmente una vita tutta sua, olio su tela, la seconda però avrebbe di fatto rinsaldato la convinzione della figlia, oramai quasi sessantenne, di avere dato un senso alla propria vita proprio in quella costante lotta per il riconoscimento artistico del padre.

La terza opzione, quella della verità, non potendo mai essere davvero presa in considerazione dall’Assessore. Per quanto l’Assessore fosse ancora un principiante della politica, una cosa l’aveva capita: mai dire le cose come stanno. E questo non perché, come tutti credono, i politici siano esseri perversi e votati al male, ma perché la verità è l’unica cosa che nessuno sarebbe disposto a perdonare a un politico. Di fatto, fra il politico e il corpo sociale, esiste un patto non scritto ma non per questo meno vincolante, per cui il politico non deve mai dire la verità, perché la verità è quasi sempre insopportabile. E nessuno è in grado di perdonartela.

La verità è che vi state dando tanto da fare per questa mostra ai Granai del Museo Fattori, che però è inutile, perché la Mostra ai Granai del Museo Fattori non cambierà di una virgola le quotazioni di questi quadri, che già capita di trovare sulle bancarelle dei robivecchi a trenta euro, pensava l’Assessore, che invece disse: «Ho sempre apprezzato molto il lavoro di suo padre, certo meriterebbe più attenzione da parte della città. . . ora, purtroppo, i Granai hanno già attività in calendario fino a gennaio dell’anno prossimo, ma risentiamoci fra qualche mese. . . »

La verità è che se suo padre fosse già passato a miglior vita, sarebbe tutto un po’ più semplice. Ora, non illudiamoci. Non credo che, anche in quel caso, il qui presente babbo suo diventerebbe Modigliani. Anche defunto, suo padre rimarrebbe infatti un pittore la cui ricerca nell’informale, sicuramente apprezzabilissima, è però destinata all’interesse di qualche studente, che magari lo citerebbe nella sua tesina sui pittori livornesi degli anni Settanta. Almeno, però, sulla scia dell’emozione momentanea, e grazie all’amicizia di qualche consigliere comunale o all’interessamento di un vecchio direttore di banca in pensione che possiede trenta quadri di suo padre, faremmo finalmente la Mostra ai Granai del Museo Fattori. Resterebbe aperta per un mese, sarebbe gratuita, e ci verrebbero duecento persone, pensava l’Assessore, che invece disse: «Mi raccomando, fatevi sentire verso novembre, magari alla fine troveremo il modo». L’Assessore si era così alzato in piedi.

Quando l’Assessore si alzava in piedi, voleva dire che il tempo dedicato al progettino era finito, perché c’erano tanti altri progettini da valutare, e l’Assessore avrebbe voluto passare le ore a parlare con X proprio del suo, che in effetti era il più importante di tutti, ma purtroppo, ecco, si accomodassero pure fuori, il vecchio pittore e la figlia, «arrivederci, arrivederci». La Segretaria chiese allora se poteva far entrare il prossimo, ma no: prima c’era una cosa più importante. «Ecco l’autocertificazione. Che roba complicata. Spero di aver risposto bene a tutto». La Segretaria gli sorrise condiscendente, come la mamma all’imbecille adolescente che, per una volta, ha rifatto il letto di camera sua.

© Simone Lenzi
Linkiesta Books

Simone Lenzi parlerà di Malcomune durante il festival Pensavo Peccioli, domenica 30 marzo, insieme a Luca Sofri, tuttora direttore del Post.