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  • Mercoledì 26 marzo 2025

Come sta cambiando il rione Sanità di Napoli

Uno dei posti storicamente più problematici della città oggi è descritto come un “modello”, grazie al lavoro dei giovani che ci abitano

di Francesco Gaeta

Piazza Sanità, Napoli (Il Post)
Piazza Sanità, Napoli (Il Post)

Prima dell’estate nel rione Sanità di Napoli riaprirà dopo quattro anni di ristrutturazioni il cimitero delle Fontanelle, in cui vennero sepolti i morti della pestilenza del 1656 e poi quelli del colera del 1837. È una grande cava di tufo piena di migliaia di teschi accatastati lungo le pareti, che per secoli sono stati destinatari di un antico e diffuso culto popolare. Adottare una “capuzzella”, come qui chiamano i crani, voleva dire assicurarsi un angelo custode a cui chiedere salute e grazie. Per il morto in questione, o almeno per chi ci credeva, significava non essere più un’anima “pezzentella”, cioè senza nome.

Le Fontanelle sono di proprietà del comune di Napoli, ma a gestirle sarà una cooperativa sociale piuttosto nota in città, la Paranza, nata quasi 20 anni fa per iniziativa di alcuni ragazzi cresciuti nella parrocchia di Santa Maria della Sanità. La Paranza già si occupa da diversi anni di due luoghi simbolo del rione: le catacombe di San Gaudioso e quelle di San Gennaro, che insieme sono oggi il terzo sito storico più visitato della città, dopo la cappella Sansevero e il complesso di Santa Chiara.

Il rione Sanità è da sempre uno dei quartieri più difficili di Napoli, ma negli ultimi anni ci si sono stabilite diverse cooperative gestite da persone giovani e impegnate in molte iniziative, tra cui le più visibili sono proprio quelle che si occupano del recupero dei luoghi di interesse culturale nella zona. È così che si è iniziato a parlare di un “modello Sanità”, da prendere a esempio anche in altri quartieri complicati, a Napoli e non solo. È un modello che sembra essere costituito soprattutto da tre elementi: ci sono ex luoghi di culto che gli enti pubblici o ecclesiastici non riescono a gestire; vengono rimessi a nuovo con i soldi di fondazioni private; sono poi mantenuti e gestiti da cooperative di giovani.

«Quando abbiamo iniziato eravamo in cinque, oggi siamo oltre 50 persone», racconta Gianni Maraviglia, presidente della Paranza. «Ci mettevamo alle porte del rione a fermare i turisti diretti altrove. Poi alla prima cooperativa se ne sono aggiunte altre. Abbiamo ristrutturato una parte del convento accanto alla parrocchia facendone un B&B, il primo della zona. Abbiamo avviato servizi per le famiglie e i bambini, un’orchestra di quartiere, uno studio di registrazione, laboratori teatrali. Sembrava impossibile: il rione è uno dei più difficili della città». A quel tempo “essere della Sanità” era percepito come qualcosa da nascondere: «Preferivamo dire “vengo da Capodimonte” o “da Materdei”, i quartieri vicini. Eravamo un corpo estraneo nella città».

Orchestra Sanitansamble, un modello didattico con accesso gratuito per bambini e ragazzi che promuove la pratica collettiva musicale come mezzo di organizzazione e sviluppo della comunità (Archivio La Paranza)

Per molto tempo in effetti la Sanità è stata una «periferia in pieno centro», per usare un’espressione dello scrittore Maurizio De Giovanni. Una relazione del comune del 1994, scritta per programmare un intervento di “rigenerazione urbanistica e sociale” con fondi europei, parlava di «una radicata cultura della devianza, una pessima qualità degli alloggi, un generalizzato degrado ambientale, un disservizio dei trasporti pubblici, una totale penuria di servizi locali».

Ancora oggi la Sanità ha diversi primati e molti sono negativi. Secondo dati del comune aggiornati al 2024, è un quartiere più giovane del resto della città, ma ha anche un più alto tasso di abbandono scolastico (è al 30 per cento) e una disoccupazione giovanile più elevata (al 40 per cento). È povero, almeno stando alle dichiarazioni al fisco: oltre il 40 per cento dei contribuenti dichiara meno di 10mila euro all’anno. È anche molto densamente popolato, visto che ha il doppio di abitanti per chilometro quadrato della media cittadina (17mila) ed è urbanisticamente piuttosto malmesso, con il 60 per cento degli edifici che è anteriore al XIX secolo.

Via dei Vergini, la via di accesso del quartiere (Il Post)

Nel romanzo Nostalgia, pubblicato nel 2016 e ambientato nelle strade del rione, lo scrittore Ermanno Rea, che ci era nato, ha scritto che «la Sanità è Napoli al quadrato». Ma anche che «se Napoli è un mondo a parte rispetto al resto del pianeta, la Sanità è un mondo a parte rispetto alla stessa Napoli».

Fino a qualche anno fa è stata un’area interdetta perfino ai napoletani, per effetto della camorra. Per spiegarlo a chi viene da fuori, gli abitanti della Sanità raccontano di quando «i tassisti preferivano fermarsi alle porte del rione, a piazza Cavour o a porta San Gennaro», e le guide turistiche sconsigliavano di mettervi piede. Succedeva negli anni Novanta, quando a dominare nella zona era uno dei clan più feroci di Napoli, quello guidato da Giuseppe Misso. La faida per il comando che si aprì nel 2005 fece aumentare il numero di morti nelle strade, con episodi eclatanti come le “stese”, sparatorie dimostrative con colpi a casaccio che partivano da auto o moto in corsa e obbligavano i passanti a stendersi per terra per sfuggire alle pallottole. Nel 2015 fece molta impressione la morte di un ragazzo, Gennaro Cesarano, ucciso in questo modo proprio di fronte alla chiesa di Santa Maria della Sanità.

La scultura in ricordo di Gennaro Cesarano, accanto alla Basilica di Santa Maria della Sanità (Il Post)

Oggi il clima è certamente migliorato. Il rione rientra in molti itinerari turistici, ed è perfino indicato come un posto di tendenza da alcune testate estere, perché ritenuto più “genuino e verace” di altri luoghi di Napoli. Tuttavia, quel passato non è del tutto concluso. Nelle strade della Sanità si possono vedere molte auto della polizia e anche diversi posti di blocco, ma la loro presenza non pare essere sufficiente. Il 15 marzo, nella centrale via Santa Teresa degli Scalzi, è stato ucciso un ragazzo di 20 anni, Emanuele Durante, mentre era in auto con la sua fidanzata. È successo nel pomeriggio e davanti ad alcune persone. Un altro ragazzo del quartiere, Emanuele Tufano, di 15 anni, era stato ucciso alla fine di ottobre in una sparatoria con una banda di adolescenti del quartiere Mercato.

Paolo La Motta, un pittore che è nato e cresciuto qui, ha avuto Tufano tra i suoi allievi alla scuola elementare Papa Giovanni, dove tiene laboratori di scultura ai ragazzi. Nel suo studio mostra un ritratto di Tufano che risale a qualche anno fa. «Sono cresciuto anch’io in strada – racconta – e so che la vita di un ragazzo può cambiare grazie agli incontri che fa nei primi anni, a scuola innanzitutto. Io ho dentro questo dolore: in molti casi quando i bambini crescono li perdo di vista. E spesso anche loro si perdono». Secondo La Motta, la narrazione di un quartiere che è rinato «è troppo ottimista, appiattisce la complessità, è una scorciatoia mediatica».

Paolo La Motta nel suo studio (Il Post)

Non basta il turismo, dice, che ha perfino effetti negativi: «Si aprono i B&B, gli affitti salgono e le famiglie sono sfrattate. Voi dei giornali arrivate qui, noi raccontiamo che le cose sono cambiate, che siamo pieni di turisti e siamo tutti contenti. Ma è una rimozione, si fa per pigrizia o perché è troppo difficile affrontare il problema».

I segnali di un cambiamento alla Sanità però ci sono: dalla fila di turisti davanti a un paio di pizzerie e di bar alla moda (con prezzi molto milanesi, a dirla tutta) alla quantità di organizzazioni e associazioni che si possono elencare sul territorio. È invece notevole che si parli poco o niente di politica, del comune, del sindaco, e anche a domande dirette chi abita alla Sanità ne parla con un certo disincanto. È come se il cambiamento arrivasse tutto dal basso e senza sponde, e non si chiedesse all’amministrazione cittadina di condividere una visione.

Il segnale di cambiamento più importante, in ogni caso, sta in una “rete educativa”, come la definisce chi l’ha avviata negli anni scorsi, composta da una ventina di organizzazioni che hanno sede nel quartiere. Alcune sono nate in ambito cattolico, come la Paranza, altre arrivano da percorsi diversi e anche più antichi.

La palestra sociale della casa di comunità “Cristallini 73” (Archivio La Paranza)

Ci sono centri di ascolto per adolescenti, centri di accoglienza diurni che fanno doposcuola, associazioni che affiancano e sostengono le madri in difficoltà, palestre di judo e pugilato. «Ciascuna gestisce i propri progetti, in alcuni casi gestiscono progetti insieme», racconta Amalia Aiello, che nel quartiere è stata maestra elementare ed è una delle coordinatrici di questa rete. «Abbiamo iniziato venti anni fa con le passeggiate di quartiere. Portavamo i bambini delle elementari a conoscere i luoghi di interesse artistico e culturale del quartiere. Incontravano artigiani, artisti, commercianti. Per molti è stato il primo contatto con la realtà sociale che li circondava. Vivevano la strada, ma in un modo diverso dal solito, cioè solidale, accogliente».

Marco Badolati, che oggi ha 29 anni, racconta di quanto da bambino sia stato importante incontrare in strada un educatore, cosa che lo ha portato «a scegliere di fare lo stesso mestiere». La sua cooperativa si chiama “Il Grillo Parlante” e oggi gestisce un centro diurno per ragazzi, dove si svolgono attività educative e di aiuto scolastico. In un quartiere in cui l’abbandono scolastico è ben sopra la media, «i ragazzi bisogna andarli a cercare»: è il mestiere di quello che definisce “educatore di prossimità”. Badolati parla di percorsi di “istruzione parentale”, extracurriculari, che cioè non fanno parte dei programmi tradizionali, e che sono concordati con famiglie e professori. «Sono pensati per sviluppare competenze alternative, dalla cucina al teatro alla musica. La scuola tradizionale non ha metodi e parole per evitare la dispersione scolastica».

«Il cambiamento che stiamo vivendo è reale, si misura non solo dai nuovi posti di lavoro che le cooperative stanno creando», spiega Eleonora Musto, 28 anni, assistente sociale. Lavora presso “La Rana Rosa”, un centro di ascolto rivolto ad adolescenti.

Il “modello Sanità” fa leva su un elemento che qui c’è in abbondanza: le chiese. Sono tante, hanno facciate e interni ricchi di corredi e opere d’arte, e alcune sono state adibite di recente a usi più contemporanei.

Museo Jago (Il Post)

Sant’Aspreno ai Crociferi è la sede del museo Jago, che è oggi uno degli artisti più quotati sulla scena internazionale. La sua scultura più nota, Il figlio velato, è visibile in un’altra chiesa del rione, la basilica di San Severo fuori le mura. La chiesa della Misericordiella, che è del Seicento ma sorge su una costruzione paleocristiana, è diventata il laboratorio dello scultore Christian Leperino, che vi ha avviato una scuola d’arte per i ragazzi del quartiere. Santa Maria Maddalena, oggi nota come “chiesa blu dei Cristallini” dalla via in cui ha sede, ha da poco riaperto dopo 40 anni di chiusura. Viene detta “chiesa blu” perché sulle sue pareti si vedono i volti di alcuni abitanti ritratti in circa venti tonalità di azzurro da un gruppo di artisti tra i 16 e i 25 anni, che hanno lavorato insieme a pittori e muralisti più famosi come Tono Cruz, Mono González e Giuliana Conte.

Il riuso di spazi di culto o la loro valorizzazione in chiave artistica si sta adesso allargando ad altre zone della città. Secondo i più recenti dati della curia, nel centro storico di Napoli sono presenti 203 chiese, di cui 79 attive, 75 chiuse (in restauro o abbandonate) e 49 adibite a usi profani. Mancano però i sacerdoti, i fedeli diminuiscono e le chiese chiudono. Per evitare che l’arte che vi è contenuta diventi inaccessibile la diocesi di Napoli ha creato la Fondazione Napoli C’entro e ha chiamato don Antonio Loffredo a replicare il modello di gestione sperimentato in questi anni alla Sanità: monumenti e beni artistici valorizzabili, cooperative giovanili, partnership con fondazioni.

Si è cominciato da qualche settimana con le prime due chiese in altri quartieri, il Duomo e la chiesa di Sant’Aniello a Caponapoli, chiusa da anni, e si prevede di aggiungerne tre nei prossimi mesi. Racconta Loffredo: «Non metteremo l’ingresso a pagamento, come succede in altre città, né chiederemo offerte. L’obiettivo è valorizzare le risorse e creare un progetto a cui cittadini e turisti possano partecipare. Al posto del biglietto chiederemo di diventare soci della Fondazione».