La modesta proposta italiana per integrare il piano di riarmo europeo

Tra le altre cose contraddice lo storico approccio della destra, che finora era stata critica verso i paesi del Nord ossequiosi del rigore di bilancio

Il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti, promotore dell'iniziativa italiana sul riarmo europeo, alla Camera dei deputati, il 12 marzo 2025 (Mauro Scrobogna/LaPresse)
Il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti, promotore dell'iniziativa italiana sul riarmo europeo, alla Camera dei deputati, il 12 marzo 2025 (Mauro Scrobogna/LaPresse)

Il governo italiano sta portando avanti una sua specifica proposta nel dibattito sul piano di riarmo europeo: prevede di stanziare fondi pubblici europei a garanzia degli investimenti privati nel settore della difesa e dell’innovazione tecnologica. È un’idea elaborata in particolare dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, che l’ha condivisa coi suoi omologhi europei lo scorso 11 marzo, trovando per ora disponibilità a valutarla e ad approfondirla. Questa proposta sarebbe eventualmente integrativa: qualora venisse accolta dagli altri Stati membri, cioè, aggiungerebbe un nuovo strumento a quelli già previsti dal piano ReArm Europe definito da Ursula von der Leyen; dovrebbe inoltre integrarsi, e non è ancora chiaro in che modo, con altre soluzioni che la Commissione ha annunciato, proprio con lo scopo di favorire maggiori investimenti delle aziende europee nel settore militare.

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Per Giorgetti, questo strumento avrebbe un indubbio vantaggio: non aggravare i bilanci pubblici dei singoli Stati membri. È un’esigenza particolarmente importante per l’Italia, che ha un elevatissimo debito pubblico e non potrebbe sostenere facilmente nuovi corposi disavanzi di bilancio. In questo senso, dunque, il governo di Giorgia Meloni ha deciso di cedere su una sua storica battaglia.

Per mesi, durante la discussione delle nuove regole fiscali europee inserite nel Patto di stabilità, Meloni aveva insistito per ottenere che le spese per gli investimenti in difesa non venissero conteggiate nel calcolo del deficit dei vari paesi. Quando von der Leyen ha presentato il suo Piano di riarmo, ha inserito anche questo strumento nell’insieme di misure che i singoli Stati membri potevano adottare per destinare maggiori risorse al settore. Sia Meloni sia il ministro della Difesa Guido Crosetto hanno rivendicato questo risultato come una vittoria dell’Italia, ma il governo ha subito deciso di non usufruirne. Il motivo è che, al di là delle regole di bilancio europeo, un maggiore indebitamento peserebbe molto sul già problematico bilancio pubblico italiano, scoraggiando investitori e risparmiatori a comprare i titoli di Stato.

Confidandosi con alcuni parlamentari dell’opposizione, Giorgetti ha spiegato che il semplice annuncio di von der Leyen, che lasciava presagire agli operatori finanziari che anche l’Italia avrebbe fatto nuovo debito per il riarmo, aveva scoraggiato gli investitori in borsa e costretto il governo ad aumentare il tasso di interesse sui titoli di Stato: con una maggiore spesa prevista, nel 2025, di una decina di miliardi.

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni incontra la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen a Bruxelles, il 20 dicembre 2024 (Filippo Attili/LaPresse)

Si tratta di stime preliminari, al momento. Di certo c’è invece che il governo italiano ha stabilito che sia più opportuno ricorrere ad altri strumenti, nonostante le regole fiscali europee rispecchino finalmente le sue richieste.

Da qui nasce la proposta di Giorgetti, descritta in una nota tecnica condivisa coi ministri delle Finanze degli altri Stati membri. La proposta somiglia molto a InvestEU, il programma per favorire gli investimenti privati in settori considerati strategici dall’Unione Europea per il periodo 2021-2027. Funziona grosso modo così: la Commissione Europea stanzia risorse a garanzia degli investimenti privati. Sono, per dirla in maniera semplificata, risorse che servono come “salvagente”: nel caso di difficoltà per il progetto finanziato (per esempio aumenti imprevisti dei costi delle materie prime, o finanziatori che falliscono) gli operatori pubblici finanziati dall’Unione interverrebbero per sistemare le cose.

Ma le garanzie pubbliche hanno più che altro una funzione di incoraggiamento: gli investitori privati si sentono rassicurati da questa protezione, e accettano di investire. È questo il principio della leva fiscale: mettendo una certa cifra di fondi a garanzia, senza spendere direttamente quei soldi, si attivano investimenti per cifre molto maggiori. Nel caso di InvestEU, a fronte di 26,2 miliardi di garanzie previste dall’Unione, e gestite prevalentemente dalla Banca Europea degli Investimenti (BEI), la Commissione conta di attivare circa 370 miliardi di euro di investimenti privati.

Secondo le rilevazioni più recenti, al 31 ottobre scorso, circa a metà del percorso le garanzie messe a disposizione sono state 22 miliardi, e fino al giugno scorso avevano mobilitato poco meno di 280 miliardi utilizzati per 261 progetti. InvestEU ha contribuito a creare, o a mantenere, quasi 3 milioni e mezzo di posti di lavoro.

Tra i paesi più avanzati dell’Unione l’Italia è uno di quelli che stanno sfruttando meglio il piano, che ha comunque una portata limitata. Al 31 ottobre 2024 risultavano spesi 4,4 miliardi, lo 0,2 per cento del prodotto interno lordo. Un ruolo importante, nell’attuazione di questi progetti, per l’Italia lo sta svolgendo Cassa Depositi e Prestiti (CDP), la società pubblica controllata dal ministero dell’Economia, che da sola ha gestito finora 900 milioni di euro, destinati ad attivare nel complesso 1,5 miliardi di investimenti privati. Il Portogallo è in questo senso il paese più efficiente: 4,3 miliardi di investimenti, pari all’1,6 per cento del prodotto interno lordo.

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È anche per questo che Giorgetti vuole riproporre questo strumento definendolo meglio per gli obiettivi specifici della difesa. Il nome proposto è «European Initiative for Security and Industrial Innovation» (EU-SII): prevede di istituire un fondo di garanzia di circa 16,7 miliardi di euro che dovrebbe mobilitare fino a 200 miliardi di investimenti industriali. L’ipotesi ha indubbi vantaggi per il governo. Innanzitutto di carattere contabile, perché consente di evitare di fare nuovo debito. E anche perché dà a Meloni la possibilità di intestarsi una propria proposta, che peraltro ha il vantaggio, sul piano elettorale, di discostarsi dalle iniziative considerate più marcatamente militariste di cui si discute in Europa intorno al piano di riarmo. Questa di Giorgetti è facilmente presentabile come una soluzione che avvantaggia settori produttivi anche solo lontanamente connessi con l’industria bellica: l’aerospazio, la sicurezza informatica, l’intelligenza artificiale e le infrastrutture in generale.

Ha però anche elementi di debolezza, soprattutto politici. L’Italia, e i partiti sovranisti come Lega e Fratelli d’Italia in particolare, hanno sempre considerato InvestEU – e prima ancora il cosiddetto “Piano Juncker”, dal nome del precedente presidente della Commissione, di cui InvestEU è uno sviluppo – come strumenti troppo poco coraggiosi nello stimolare la ripresa economica in Europa. E in effetti, InvestEU era figlio di un compromesso: siccome paesi come la Germania e i Paesi Bassi erano risolutamente contrari a emissione di debito comune come chiedeva l’Italia, un piano di garanzie comune era considerato il massimo che si potesse ottenere.

Il piano NextGenerationEU, attuato dopo la pandemia, aveva però infranto almeno in parte questo principio fedele al rigore tipico dei paesi cosiddetti “frugali”. E lo stesso vale in una certa misura per il piano di riarmo presentato da von der Leyen. Che sia proprio l’Italia, cioè un paese tradizionalmente critico verso l’approccio rigorista dei paesi del Nord, a proporre uno strumento per certi versi superato come InvestEU, è visto con una certa sorpresa da altri leader europei. Nel documento con cui Giorgetti ha presentato la sua proposta agli altri ministri delle Finanze, c’è scritto che «dobbiamo tenere a mente che qualsiasi nuovo debito pubblico, che sia nazionale o europeo, dovrà essere ripagato». È un’affermazione ovvia, ma che ripropone gli avvertimenti che per anni l’Italia si è sentita ripetere da Germania e Paesi Bassi ogni volta che proponeva debito pubblico europeo.

Ma al di là delle questioni di coerenza, c’è poi un aspetto finanziario importante: la portata degli investimenti attivabili con fondi di garanzie pubbliche nel breve periodo non sembra sufficiente a colmare i ritardi di molti paesi europei nel settore della difesa.

Il caso dell’Italia, uno dei paesi europei e occidentali che spendono meno in difesa, è emblematico. In quasi quattro anni tramite InvestEU ha mobilitato, come dicevamo, 4,4 miliardi: appena lo 0,2 per cento del PIL. L’obiettivo dichiarato del piano di riarmo europeo è di favorire, nei prossimi quattro anni, un incremento della spesa per la difesa in rapporto al PIL fino all’1,5 per cento ogni anno, che per l’Italia significherebbe spendere, teoricamente, fino a 120 miliardi. La sproporzione è evidente, e dimostra come, eventualmente, lo strumento suggerito dall’Italia sarebbe un corredo tutto sommato marginale, e in nessun caso sostitutivo, rispetto al piano di riarmo nel suo complesso.

Meloni ha insistito su questa proposta anche all’ultimo Consiglio Europeo, giovedì scorso. E ha ottenuto che nelle conclusioni, cioè nel documento che riassume la decisione presa dai leader dei 27 Stati membri, si facesse un riferimento a questa iniziativa.

Il Consiglio, si legge, «sottolinea l’importanza di mobilitare finanziamenti privati per l’industria europea della difesa e invita la Commissione a valutare l’opportunità di avvalersi maggiormente dei programmi dell’UE, ad esempio basandosi sull’esperienza del comparto degli Stati membri di InvestEU […]». Ma, come fanno notare fonti diplomatiche della Commissione, il riferimento è stato inserito in una forma abbastanza vaga (invitare la Commissione a valutare l’opportunità di fare qualcosa è una formula cauta, rispetto a invitare la Commissione a fare qualcosa), e soprattutto è stato inserito in un capitolo a parte rispetto alle politiche di difesa, ossia in quello che riguarda l’Unione del risparmio e degli investimenti.

Nel cosiddetto “Libro bianco della Difesa”, il documento con cui la Commissione il 19 marzo scorso ha definito nel dettaglio la sua politica di difesa comune e il funzionamento del piano di riarmo, non è stato fatto alcun diretto riferimento a InvestEU o a sue evoluzioni, neppure nel paragrafo dedicato alla necessità di mobilitare i capitali privati.