Perché in Italia non si coltiva il riso basmati
Ne viene importato molto, soprattutto dal Pakistan, e i tentativi di imitarlo si scontrano con fattori ambientali

Negli ultimi anni in Italia è aumentato il consumo di riso basmati, il nome con cui sono conosciute molte varietà coltivate in Asia, in particolare in India e Pakistan. Proprio dal Pakistan nel 2024 l’Italia ha acquistato 30mila tonnellate di riso, quasi la metà di tutto quello importato in Italia. I risicoltori italiani hanno più volte espresso timori sulle conseguenze della crescita dell’importazione di basmati: sostengono che il riso prodotto in Pakistan e India sia meno sicuro di quello coltivato in Italia, e che l’arrivo in Europa di così tanto basmati possa falsare il mercato. Tuttavia il basmati continua a essere molto richiesto dai consumatori e al momento tutti i tentativi di replicarne le caratteristiche non hanno avuto successo, per cui non resta che importarlo dall’Asia.
Il basmati è un riso della varietà indica, dalla caratteristica forma allungata, adatta soprattutto alla coltivazione in climi tropicali e subtropicali. L’altra varietà più nota è la japonica, coltivata in paesi dal clima temperato: è riconoscibile per i chicchi tondi ed è la più diffusa in Italia.
Il riso basmati conosciuto e commercializzato in Europa è costituito da 9 varietà di indica. Viene coltivato quasi esclusivamente nei paesi alle pendici della catena montuosa dell’Himalaya, nelle pianure tra i fiumi Indo e Gange. In quest’area si trovano le condizioni climatiche ottimali – temperature, umidità e precipitazioni – per la sua coltivazione, oltre che una particolare composizione dei terreni alluvionali che non si trova in altre parti del mondo. Nel corso dei secoli inoltre si sono sviluppati e tramandati metodi e tecniche di coltivazione che hanno permesso di creare le varietà oggi apprezzate ed esportate in tutto il mondo.
Il basmati è considerato il riso aromatico per eccellenza grazie al suo profumo e alla sua consistenza. In cottura cresce quasi il doppio in lunghezza invece che in larghezza. Rimane al dente e sgranato, cioè i chicchi non si appiccicano l’uno all’altro.
In Italia, dove si produce la metà del riso coltivato in Europa, il basmati non può essere coltivato perché mancano le condizioni climatiche giuste. Eppure negli ultimi decenni sono stati fatti alcuni tentativi per imitarne le caratteristiche. Le varietà aromatiche italiane sono state ottenute attraverso l’incrocio tra varietà asiatiche e risi italiani. Sul mercato si trovano per esempio l’Apollo, l’Asia, il Brezza, l’Elettra, il Gange, che vengono quasi sempre commercializzati con nomi generici come “riso aromatico”. Anche se spesso vengono presentate come una valida alternativa al basmati, queste varietà non possono essere vendute con quel nome perché non sono vero basmati: sono meno profumate e non crescono così tanto in lunghezza, quindi i chicchi risultano meno sottili.
«Il mercato delle varietà aromatiche italiane è molto di nicchia, anche se ci sono diverse aziende che provano a farsi spazio», dice Enrico Losi, responsabile economico dell’Ente Nazionale Risi, che si occupa della tutela del settore risicolo. «Pur avendo un aroma competitivo con il basmati, le varietà italiane non hanno la capacità di allungarsi così tanto. In Italia si coltivano ottimi risi aromatici, ma non sono la stessa cosa».
Uno dei rischi dell’importazione di basmati riguarda l’approssimativo sistema di controlli sulla qualità del prodotto. Gli ispettori doganali controllano a campione circa il 10 per cento dei lotti in arrivo in Italia e negli ultimi anni proprio queste ispezioni hanno permesso di scoprire ricorrenti irregolarità. Nel 2024 su 191 allerte di scarsa salubrità emesse per l’importazione di riso, il 60 per cento riguardava spedizioni in arrivo dal Pakistan o dall’India. Le allerte riguardano soprattutto la presenza di pesticidi vietati nell’Unione Europea.
L’utilizzo dei pesticidi che fanno aumentare la resa delle coltivazioni è anche alla base di una disputa commerciale tra l’India e il Pakistan. Fino al 2016 i paesi europei importavano basmati prevalentemente dall’India, che dal 2017 dovette cedere quote di mercato al Pakistan per via del divieto di utilizzare il triciclazolo, un fungicida utilizzato per prevenire numerose malattie delle piante.
Per non compromettere le esportazioni, nel 2018 l’India decise di favorire le produzioni locali depositando presso la Commissione Europea la richiesta per ottenere l’Indicazione geografica protetta (IGP) per il proprio basmati e così l’uso esclusivo del termine “basmati” nell’Unione. L’IGP viene attribuita a prodotti agricoli e alimentari considerati di alta qualità e fortemente legati al territorio di origine: per ottenerla è necessario che almeno una parte della produzione, lavorazione o preparazione del prodotto avvenga nella città o nella zona indicata come origine.
L’11 settembre del 2022 la Commissione Europea pubblicò sulla propria Gazzetta Ufficiale la domanda di registrazione presentata dall’India, a cui il Pakistan si oppose. Nel 2023 fu lo stesso Pakistan a depositare la propria domanda di riconoscimento dell’IGP sul basmati del proprio territorio. Lo scorso settembre il governo italiano si è opposto formalmente all’istanza del Pakistan, che per questo è ancora in sospeso.
I risicoltori italiani temono che un’ancor più massiccia importazione di riso basmati possa causare un crollo della valorizzazione del riso aromatico europeo, con un conseguente aumento di produzione di riso indica. In questo modo le quotazioni del riso tondo, di qualità japonica, si abbasserebbero compromettendo il mercato in un momento già complicato per via dei dazi minacciati dagli Stati Uniti. «Gli attuali dazi europei sono stati introdotti una ventina d’anni fa e non aiutano più a proteggere il mercato», continua Losi. «Se vogliamo tornare a far crescere la produzione di riso non possiamo metterci a competere con paesi che producono a costi molto inferiori ai nostri ed esportano senza troppi problemi».
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