A Giorgia Meloni serviva un diversivo

Alla Camera ha fatto un discorso provocatorio, principalmente per nascondere le crescenti divergenze sulla politica estera nel suo governo

di Valerio Valentini

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni alla Camera dei deputati, il 19 marzo 2025 (Roberto Monaldo/LaPresse)
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni alla Camera dei deputati, il 19 marzo 2025 (Roberto Monaldo/LaPresse)
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Alle 11:47 di mercoledì, quando Giorgia Meloni ha preso la parola per il suo discorso di replica alla Camera, da alcuni minuti circolava sulle chat dei deputati di centrodestra un’intervista che Riccardo Molinari, il capogruppo della Lega, aveva fatto poco prima a Radio 24. «L’Italia non approverà una risoluzione che dà a Meloni il mandato di approvare ReArm EU», aveva detto. Era una frase notevole: di fatto, il partito di Matteo Salvini metteva in discussione il proprio sostegno alla presidente del Consiglio, in procinto di partire per Bruxelles per partecipare al Consiglio Europeo che dovrà tra l’altro confermare l’attuazione del piano di riarmo europeo, appunto.

Mezz’ora più tardi Salvini, impegnato a Bruxelles per incontri istituzionali, ripeteva più o meno le stesse obiezioni di Molinari, ma con fare più ambiguo: «Meloni ha un mandato per difendere l’interesse nazionale italiano», e non il piano di riarmo. Poco dopo, mentre raggiungeva la Camera, Antonio Tajani, leader di Forza Italia, veniva interpellato sulle parole di Salvini, e diceva, all’opposto: «Meloni ha pieno mandato da Forza Italia per approvare il piano di sicurezza della von der Leyen». Insomma, le divisioni all’interno della maggioranza, sia pure frutto di tatticismi più che di una vera volontà di rottura, erano abbastanza chiare.

– Leggi anche: Non si capisce chi decide la politica estera del governo

Ma nel frattempo Meloni aveva concluso il suo discorso con un passaggio volutamente provocatorio sul Manifesto di Ventotene, considerato in tutta Europa come uno dei testi fondamentali del pensiero europeista moderno: da lì si era innescata una reazione feroce nell’aula di Montecitorio, e quel caos aveva relegato in secondo piano il principale dato politico di questi due giorni di dibattiti parlamentari: la difficoltà di Meloni nel seguire un orientamento che sia condiviso da tutta la sua maggioranza sui temi internazionali.

Del resto, le mediazioni tra i partiti di governo erano state piuttosto faticose fin dall’inizio. Domenica pomeriggio, al termine di una settimana in cui Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia avevano votato in maniera diversa sia sul sostegno all’Ucraina sia sulla politica di difesa comune, Tommaso Foti, il ministro per gli Affari europei, aveva tra le mani un documento che conteneva passaggi scritti con colori e caratteri diversi.

Era la bozza della risoluzione che la maggioranza avrebbe dovuto votare martedì al Senato e mercoledì alla Camera, cioè il testo che indicava l’orientamento del governo intorno ai temi all’ordine del giorno del prossimo Consiglio Europeo, la riunione tra i capi di Stato e di governo dei 27 paesi dell’Unione. In quella bozza, originariamente elaborata dai collaboratori di Meloni, erano segnalate in maniera evidente le differenti richieste e le proposte di correzioni suggerite dai tre partiti: in rosso quelle della Lega, in blu quelle di Forza Italia, in verde quelle di Fratelli d’Italia.

Il compromesso finale, trovato definitivamente lunedì, era arrivato grazie alla mediazione dei capigruppo, del ministro Foti, e di alcuni dei parlamentari più esperti nel settore degli esteri e della politica europea, come Andrea Orsini di Forza Italia e Giangiacomo Calovini di Fratelli d’Italia. Le istanze del partito di Tajani riguardavano in realtà più che altro la guerra tra Israele e Hamas, con una netta presa di posizione a favore del governo israeliano. La Lega, invece, chiedeva di inserire numerosi riferimenti alla NATO e all’alleanza con gli Stati Uniti come condizioni necessarie per elaborare qualsiasi strategia europea in merito alla difesa comune. Anche sull’Ucraina, i leghisti suggerivano di assecondare con convinzione i tentativi diplomatici di Trump per trovare un’intesa sul cessate il fuoco con il presidente russo Vladimir Putin.

Su questi punti, il lavoro di Foti per trovare un compromesso è stato faticoso.

La Lega ha rifiutato più volte alcune proposte di riformulazione, ritenendole troppo blande. A un certo punto, nel confronto tra i dirigenti dei vari partiti, quelli della Lega hanno avvertito che, nel caso in cui il testo della riformulazione si distaccasse troppo dalle loro proposte, si sarebbero sentiti liberi di esprimere dissenso in aula, eventualmente anche non votando insieme a Forza Italia e Fratelli d’Italia su alcune parti del testo alla Camera. Alla fine, il testo della risoluzione ha accolto molte delle richieste della Lega, soprattutto nelle parti che riguardano il piano di riarmo e la guerra in Ucraina.

Se si confronta questa con la precedente risoluzione, approvata dalla maggioranza prima del Consiglio Europeo del 19 e del 20 dicembre, le differenze sono molte.

Se allora impegnava il governo a «continuare a sostenere, per tutto il tempo necessario, l’Ucraina nelle sue diverse dimensioni (politico-diplomatica, economico-finanziaria, militare e umanitaria)», ora il proposito è di «continuare a sostenere l’Ucraina per tutto il tempo necessario, fermo restando l’auspicio di una rapida conclusione dei negoziati di pace». Se a dicembre la maggioranza chiedeva di «proseguire nell’impegno diplomatico per la realizzazione della Formula di Pace Ucraina sulla base del principio che nessuna iniziativa di pace può essere portata avanti senza un pieno coinvolgimento di Kiev», e dunque sosteneva con convinzione le richieste del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, ora l’impegno è a «lavorare con l’Unione Europea, con gli Stati Uniti e con i tradizionali alleati per arrivare a una pace basata sui principi della Carta delle Nazioni Unite e sul diritto internazionale, assieme all’Ucraina e ai partner internazionali».

Maurizio Gasparri, capogruppo di Forza Italia al Senato, le considera «concessioni lessicali» fatte a Salvini. Per il suo omologo leghista Massimiliano Romeo, che più di tutti si è impegnato per ottenere quei cambiamenti, si tratta invece «di cambiamenti sostanziali».

Che siano concessioni lessicali o meno, la risoluzione appena approvata è la più cauta sull’Ucraina tra quelle votate dalla maggioranza di governo finora. Inoltre, in tutta la risoluzione non si cita mai espressamente il piano ReArm Europe, che però sarà il principale argomento di discussione a Bruxelles.

È un cambiamento che riflette le rapide trasformazioni politiche che stanno avvenendo fuori dall’Italia. La vittoria di Trump e le sue iniziative per favorire una pace rapida impongono a Meloni, che si è più volte proposta come mediatrice tra la Casa Bianca e l’Unione Europea, di rivedere il suo convinto sostegno alla resistenza ucraina tenuto finora, che era in sintonia con la precedente amministrazione statunitense di Joe Biden. Ma la dimensione internazionale si lega a quella interna: Salvini vuole essere l’unico interprete autentico delle idee di Trump, cercando in qualche modo di accreditarsi come suo referente in Italia. E perciò ripropone, spesso esasperandole, le storiche posizioni euroscettiche della Lega.

Meloni, che pure ha un maggior prestigio, soffre un po’ questo tentativo di logoramento da parte di Salvini, ma al tempo stesso vuole evitare di entrare in conflitto con altri leader europei e con Zelensky. Per questo, se la risoluzione esprime un parziale ripensamento della sua posizione sull’Ucraina, nel suo discorso ha invece rivendicato la sua coerenza e la sua fermezza nel sostenere l’Ucraina. E se da un lato ha criticato in alcune sue parti il piano di riarmo di von der Leyen, dall’altro ha anche stigmatizzato la «grossolana semplificazione secondo cui aumentare la spesa in sicurezza equivale a tagliare i servizi: la scuola, l’infrastruttura, la sanità o il welfare. Non è ovviamente così», ha detto Meloni, «e chi lo sostiene è perfettamente consapevole che sta ingannando i cittadini».

Solo che a rilanciare queste «semplificazioni» è stata la Lega. Martedì, mentre Meloni parlava in Senato, Salvini pubblicava un video da Bruxelles in cui diceva: «Parliamo di cose serie, parliamo di sanità, di scuole, di stipendi, di infrastrutture, di porti, aeroporti, ponti, di ferrovie, di autostrade, senza togliere soldi per riarmare o comprare carri armati tedeschi o missili francesi».