La reputazione della reputazione
«Dobbiamo fare a meno del nostro buon nome, come prescrive Rhett Butler in “Via col vento” o sporcarlo, come segnala il lamento di Cassio, sarebbe una mutilazione insopportabile? Gisèle Pelicot, con un gesto radicalmente e concretamente femminista, ha dichiarato l’intenzione di “far cambiare campo alla vergogna”»

Chi ha coraggio può fare a meno della reputazione, ghigna l’irresistibile Rhett Butler in Via col vento. Già. Ci vuole una ferrea determinazione, una forza di volontà che sappia sfidare il cinismo; e per inciso, non è detto che sia proprio un bene, vivere senza curarsi dell’opinione degli altri: ce lo sta dimostrando la condotta presidenziale di Donald Trump, che della sua reputazione chiaramente se ne infischia. All’estremo opposto rispetto alla spacconeria di Rhett strilla la disperazione di Cassio nell’Otello: degradato dal rango di luogotenente come punizione per la sguaiata ubriachezza che l’ha fatto cedere alle provocazioni di Roderigo, sbraita «Reputation, reputation, reputation! O, I have lost my reputation!» Ho perso – dice – la mia parte immortale, e non resta di me che la parte bestiale.
Chi dei due ha ragione? Davvero il coraggio può bastare, per vivere tranquillamente senza curarsi del proprio buon nome? Non ne sarei così sicura; la filosofa Gloria Origgi, nel suo libro La reputazione. Chi dice che cosa di chi (2016), offre una definizione molto efficace della reputazione come un secondo sé che guida le nostre azioni, e persino, talvolta, i nostri interessi: il che spiega bene la costernazione di Cassio quando la perde.
La sua disperazione ci riguarda, soprattutto in un momento in cui i social, con le loro perturbanti proiezioni di desideri mimetici, triangolati in controlli reciproci dei comportamenti, dei profili, della desiderabilità e indesiderabilità delle nostre scelte, emozioni e consumi, si sovrappongono a un’attività pubblicitaria e promozionale perenne, cui fa da ulteriore controcanto la rapidissima diffusione di notizie e immagini – vere, false, probabili, comprovate o fittizie – che apre alla calunnia o anche semplicemente allo sguardo e dunque al giudizio, possibilità fino a ieri impensate, offrendo alle reputazioni ipertrofiche potenzialità di sviluppo e fulminee minacce di distruzione: cosa succede, oggi, quando il nostro buon nome è compromesso? Davvero la nostra esistenza deve svolgersi tutta all’ombra dello sguardo degli altri? Dobbiamo situare il valore da dare alla nostra reputazione in un punto compreso fra gli estremi delle posizioni di Rhett e di Cassio?
Qualche tempo fa sono stata invitata a visitare un liceo di Ciampino: sotto la guida del professore di informatica, Massimo Pescatori, ragazze e ragazzi avevano sviluppato un’applicazione pensata per guidare l’utente attraverso una serie di “esercizi filosofici” ripresi dalle scuole ellenistiche. Un’idea brillante, della cui esecuzione sono rimasta ammirata. Mi ha colpito molto il fatto che, arrivati ad affrontare il “tetrafarmaco” di Epicuro – la “medicina logica” che il filosofo distilla a beneficio dei propri discepoli, per curare le loro paure o meglio per immunizzarli al potere ricattatorio che i timori più profondi sanno esercitare su ogni esistenza – i ragazzi e le ragazze avessero sostituito, nella versione informatizzata del rimedio antico, la paura degli dèi con un’angoscia molto precisa e – mi hanno confermato a viva voce – molto radicata nella loro esperienza: la paura del giudizio degli altri.
L’ho trovato un escamotage interessante: oggi che gli dèi olimpici ci appaiono come buontemponi addomesticati, con le loro debolezze antropomorfe, è comprensibile che non nutriamo, rispetto al loro giudizio, gli stessi timori che contagiavano gli epicurei originari. Insomma, una classe di liceali nati oltre duemilatrecento anni dopo Epicuro presumibilmente non professa il politeismo olimpico; ma, nonostante l’abbondanza di argomenti teologici sul giudizio divino offerta dalle principali confessioni monoteiste – in cui la tensione fra colpa e punizione si dilata fino agli estremi vertiginosi delle Tre versioni di Giuda di Borges, con un Giuda che compie l’estremo sacrificio di accogliere su di sé l’infamia più estrema, quella del tradimento, per rendere possibile la redenzione del genere umano – non hanno pensato di aggiornare quella paura con un’altra angoscia di origine religiosa. Quella classe di diciassettenni ha avuto l’intuizione brillante e precisissima, e ancora più spiazzante perché spontanea, di spostare il timore del giudizio sui propri pari. Perché quella è l’esperienza che hanno, del peso del giudizio, della vergogna nel caso il giudizio sia negativo; del valore, tutto umano, della reputazione.
Per Epicuro, la paura delle punizioni divine si annulla nella constatazione che l’esistenza degli dèi si svolge in una beatitudine aliena alle tribolazioni terrestri; che, insomma, nemmeno per capriccio i fortunati abitatori dell’Olimpo si sognano di interessarsi alle miserie umane. Ma se il giudizio che angoscia non ha nulla di soprannaturale, cosa succede? È vero che, come gli dèi di Epicuro, tutti noi siamo presi da noi stessi, il che ci consentirebbe di riprendere il ragionamento antico per ridimensionare il peso del giudizio negativo degli altri, anche sottraendolo alla trascendenza, a un giudizio en passant.
Ma chi si affaccia alla vita sociale, come accade nell’adolescenza, chi non ha ancora gli strumenti per relativizzare le proprie esperienze, vive di sensazioni assolute, si sa; e chi è adolescente oggi è cresciuto in un mondo in cui lo spazio della vita quotidiana, della scuola, dell’ufficio, del treno, del condominio, si dilata ben oltre i momenti di convivenza; lambisce le ore di solitudine e occupa potenzialmente ogni istante, occhieggiando dalle notifiche, contaminando la vita che siamo abituati a chiamare reale (ma dovremmo chiamare offline) con le conseguenze, altrettanto concrete, di quella online. Le ragazze e i ragazzi di quella classe ponevano un problema intricato: come possiamo far pace con l’idea della nostra reputazione nell’epoca della sua ipertrofia? Dobbiamo farne a meno, come prescrive Rhett, votandoci a tutto il nostro coraggio – o si tratterebbe, come segnala il lamento di Cassio, di una mutilazione insopportabile?
Tendo a pensare che la reputazione sia, a modo suo, una vox media: che non abbia di per sé un significato positivo o negativo, ma che ad attribuirle quel valore debba essere, di volta in volta, il contesto. Proprio come un farmaco, può essere velenosa o salvifica, intossicarci o guarirci da mali peggiori, a seconda delle proporzioni, dei dosaggi, delle modalità in cui l’assorbiamo. A seconda della sua interazione con le cosiddette emozioni autoconsapevoli, quelle che riguardano la percezione della nostra immagine sociale e la proiezione delle conseguenze, su quell’immagine, delle nostre azioni: la vergogna, il senso di colpa, l’orgoglio.
Ci rifletto con particolare assiduità da quando ho assistito, come chiunque abbia letto i giornali negli ultimi mesi, alla stupefacente impresa di una donna che ha attivamente trasformato i rapporti di forza che si condensano nel meccanismo della reputazione, nel suo funzionamento e nella sua efficacia nel dirigere i comportamenti. Gisèle Pelicot, che con un gesto radicalmente e concretamente femminista e l’intenzione dichiarata di «far cambiare campo alla vergogna», l’ha rimandata al mittente, ovvero, nel caso specifico, al marito di cui lei ha mantenuto il cognome, perché i suoi figli non dovessero vergognarsi del loro nome, che è poi quello del loro padre ora condannato a vent’anni di carcere.
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Simmetricamente, Caroline, la figlia di Gisèle, che ha scoperto a sua volta di aver subito violenze dal padre, ha pubblicato un memoir (in Italia uscito per Utet nella traduzione di Valentina Maini) intitolato E ho smesso di chiamarti papà, firmandolo con un cognome da lei inventato come pseudonimo, Darian. Ma altrettanto significativo è che nell’edizione italiana, sotto il nome dell’autrice Caroline Darian, appaia, in copertina, a caratteri maiuscoli, la qualifica di “figlia di Gisèle Pelicot”. La quale con la sua scelta è riuscita a riscattare, insomma, l’eredità patriarcale che da secoli pesa sui cognomi delle donne, ribaltando nello stesso gesto l’automatismo della vergogna; nella fattispecie della vergogna sessuale, antica alleata del ricatto emotivo esercitato dalla reputazione sulle scelte di chi, per ragioni giuridiche, sociali, emotive, non si trova nelle condizioni di affermare la propria libertà, di affrancarsi dalla tutela e dagli sguardi, di rivendicare comportamenti, gesti e desideri che, per molto tempo, proprio dalla tutela del buon nome – della reputazione – e dalla minaccia onnipresente della vergogna sono stati disciplinati.
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Un automatismo che Gisèle Pelicot – con un coraggio che lascerebbe a bocca aperta Rhett Butler – ha disinnescato in maniera spettacolare, rivendicando la connessione fra vergogna e responsabilità e liberando sé stessa dai cascami emotivi di un’emozione che, storicamente, ha avuto un ruolo repressivo nel plasmare i comportamenti, soprattutto, femminili. Le donne, che portavano prima il cognome del padre, poi quello del marito, per il “buon nome”, per l’onore della famiglia, a quante restrizioni, a quante imposizioni, a quale durissima disciplina di condotta e di postura, sono state costrette, pur di evitare di essere oggetto di chiacchiere e pettegolezzi? Perché, se si fossero rovinate la reputazione, il loro nome essendo quello del padre, o del marito, anche la reputazione della famiglia ne sarebbe stata incrinata, in una bizzarra asimmetria delle responsabilità e della vergogna.
Alla vergogna – non solo sessuale, ma anche a quella sociale, che descrive con una crudezza da brividi – Annie Ernaux ha dedicato pagine bellissime, e anche un intero libro; ne ricostruisce la memoria minuziosa, esplora lo spietato potere che può esercitare, illuminando un autoritratto preciso come non sarebbe senza la spietata esattezza conoscitiva che proprio la vergogna conosce: «la vergogna è la verità ultima», scrive. E nota, anche, che «l’aspetto peggiore della vergogna è che si crede di essere gli unici a provarla»: il suo potere di implicito ostracismo, l’isolare il soggetto che la prova in una posizione di assoluta solitudine, arroccandolo in una posizione in cui gli sguardi lo dardeggiano senza solidarietà possibile. Le immagini di Gisèle Pelicot attorniata dai suoi figli ci dimostrano che questa solitudine tanto spesso comminata alle vittime lei l’ha saputa stornare, rompendo l’incantesimo, torcendo l’automatismo.
Le ragazze e i ragazzi di Ciampino mi hanno mostrato dal canto loro che oggi riflettere sulle emozioni autoconsapevoli è particolarmente importante: perché stanno cambiando molte cose nella maniera in cui ci rapportiamo alla percezione sociale della nostra immagine. I meccanismi all’opera, certo, sono antichi, e in un certo senso sempre identici: «Meglio avere un buon nome che un buon olio», recita un versetto del Qoelet, l’Ecclesiaste dell’Antico Testamento. E nel quarto libro dell’Eneide Virgilio racconta il diffondersi della notizia dell’amore fra Enea e Didone sbrigliando nei suoi versi la Fama, «fulminea fra tutti i mali», che nasce piccola, timida, ma acquista correndo sopra le città un vigore sempre più saldo; messaggera indifferente della verità e della calunnia, stride nella notte come un rapace mostruoso, ricoperta di tanti occhi e tante lingue quante sono le piume che la vestono.
Sono cambiati però, e molto rapidamente in pochi anni, gli strumenti che amplificano, con ostinazione capillare, il potere di quegli stessi meccanismi: mettono altre ali ai piedi della mostruosa creatura sognata da Virgilio, hanno una potenza di gittata inusitata. Inoltre, bisogna tener conto dei mutamenti di una società che cambia non solo per effetto di un tumultuoso progresso tecnologico: la frammentazione crescente del senso di comunità e dei valori condivisi, l’allontanamento progressivo dalle forme tradizionali di religiosità, lasciano spazio per nuove forme che ancora forse fatichiamo a decifrare.
In un suo studio ormai classico, l’antropologa americana Margaret Mead tracciò la distinzione, poi ulteriormente esplorata da Ruth Benedict, tra “culture della vergogna”, in cui le sanzioni con cui un individuo è controllato sono esterne, e “culture della colpa”, in cui le sanzioni sono interne. Che posto c’è, per il senso di colpa, nell’app dei ragazzi del liceo di Ciampino? Forse non c’è, e forse – forse – non è detto che sia un male. Forse si può riprendere un suggerimento che affiora dallo studio del filosofo Bernard Williams, Vergogna e necessità: rivalutare una forma specifica della vergogna, come era intesa nel mondo greco antico in cui nasce la possibilità dell’etica che, per mille metamorfosi, è arrivata a noi. Un sistema normativo che si arricchisce dell’esperienza e del confronto continuo fra sé e l’altro da sé, integrando interno e esterno in un sistema condiviso di valori, in trasformazione perché plasmato dalla frequentazione dei propri simili. Beffando così l’illusione di una solitudine assoluta, disperante, di fronte allo sguardo altrui.
Forse, ai ragazzi e alle ragazze del liceo di Ciampino avrei dovuto dire – ma mi è chiaro solo adesso – che la soluzione per dissolvere la paura del giudizio degli altri è l’esatto inverso della medicina con cui Epicuro curò il timore degli dèi. Se gli dèi non dovevano spaventare perché impegnati a vivere una vita beata in cui si disinteressano delle nostre bagatelle, ovvero: se gli dèi non si curano di noi a causa della differenza costitutiva fra noi e loro, fra noi e i nostri pari esistono invece somiglianze che vanno al di là delle nostre scelte arbitrarie, che rendono chi ci giudica, o ci può giudicare, attraverso i mille occhi di cui ci dotano gli smartphone, molto più simile a noi, eventualmente anche alle nostre miserie, di quanto possiamo pensare.
Siamo fatti della stessa materia, abbiamo problemi, timori, vergogne, difficoltà, se non simili, certo commensurabili: questo dovrebbe dissipare, se non quello della paura, il ricatto dell’isolamento. E renderci disposti a ammettere, al di là di ogni orgoglio possibile, le paure che abbiamo, anziché lasciare che ci arpionino con la prepotenza delle passioni tristi, delle emozioni mai ammesse, soffocate, negate e perciò tenaci come piante infestanti; che, quelle sì, finirebbero per isolarci a noi stessi prima ancora che agli altri. Anzi, forse bisognerebbe cominciare a ripensare lo stigma: guardarlo come una maniera di addossare agli altri la vergogna che si prova per sé.
E poi, certo, sarebbe importante fare tesoro dell’aspetto più rivoluzionario, sul piano etico, del gesto di Gisèle Pelicot: ricordarci che esiste, di ogni azione che compiamo o subiamo, una responsabilità, e che è sul terreno della responsabilità, non su quello delle emozioni, che la nostra libertà di esseri umani prende la forma di una possibile scelta etica. Delle emozioni non abbiamo responsabilità, se non nella misura in cui possiamo risolverci a prendere coraggio, come piacerebbe a Rhett Butler, e permetterci di sentirle, decifrarle, nominarle, condividerle per quanto possiamo, in modo da evitare che ci ricattino. Anche quando la vergogna prende, per illusione ottica, quella forma ingannevole che ci spinge a credere di essere soli, isolati, di fronte allo sguardo irridente del mondo intero.
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