La prima passeggiata spaziale della storia

Sessant'anni fa Alexei Leonov uscì dalla sua capsula spaziale e fluttuò intorno alla Terra, rischiando di morire

di Emanuele Menietti

Alexei Leonov durante l'attività extraveicolare del 18 marzo 1965 (Roscosmos)
Alexei Leonov durante l'attività extraveicolare del 18 marzo 1965 (Roscosmos)

Quando Alexei Leonov aprì il portello che lo separava dall’ambiente spaziale si trovò a fluttuare nello Spazio, con la luce riflessa dalla Terra ad alcune centinaia di chilometri dai suoi piedi. Erano da poco passate le 9:30 (ora italiana) del 18 marzo 1965. Leonov stava tentando una cosa mai fatta prima nella storia dell’umanità: muoversi all’esterno della piccola capsula spaziale che lo aveva portato in orbita. Sessant’anni fa, quell’impresa segnò un passaggio fondamentale nell’esplorazione dello Spazio, e avrebbe potuto segnare anche la fine di Leonov.

Benché siano ancora una delle cose più rischiose che si possano fare intorno alla Terra, oggi diamo quasi per scontate le passeggiate spaziali (o più propriamente EVA, “attività extraveicolari”). Gli astronauti che periodicamente fanno manutenzione della Stazione spaziale internazionale (ISS) rimanendo per ore al suo esterno non fanno quasi più notizia, salvo qualche imprevisto. Per alcuni è un bene, un segno della normalizzazione dello Spazio, per altri un male e la dimostrazione dell’incapacità di interessarsi dei nuovi confini dell’esplorazione umana. Sessant’anni fa, era diverso.

Quando Leonov era partito a bordo della capsula spaziale sovietica Voskhod 2, insieme al suo compagno di viaggio Pavel Belyayev, non erano ancora passati quattro anni dal primo viaggio spaziale della storia di Yuri Gagarin e otto anni dallo Sputnik I, il primo satellite portato in orbita. Erano gli albori dell’esplorazione dello Spazio e tutti i principali successi avevano coinvolto l’Unione Sovietica, con una dimostrazione di superiorità tecnologica nei confronti degli Stati Uniti. Le due super potenze della Guerra fredda erano nel pieno della loro competizione nella “corsa allo Spazio”, culminata nel 1969 con il primo allunaggio con astronauti statunitensi, e a Leonov spettava il compito di aggiungere un nuovo primato.

La missione era partita senza imprevisti alle 8 del mattino (ora italiana) dal cosmodromo di Baikonur in Kazakistan, la stessa base di lancio da cui partono ancora oggi le capsule spaziali russe dirette verso la ISS. Leonov, che aveva trent’anni, condivideva gli spazi ristretti della navicella con Belyayev, che una volta in orbita lo avrebbe assistito nella preparazione e nelle procedure per l’EVA. Meno di un’ora e mezza dopo la partenza, la Voskhod 2 aveva già compiuto un giro intorno alla Terra e per i due cosmonauti era arrivato il momento di provvedere alla passeggiata spaziale.

Modello di Voskhod 2 (Cosmosphere su YouTube)

Alla tuta spaziale di Leonov fu assicurato uno zaino rigido, che conteneva l’ossigeno che il cosmonauta avrebbe respirato durante l’EVA. Prima di aprire il portello della capsula, fu dispiegata e pressurizzata una camera d’equilibrio (airlock) gonfiabile, nella quale Leonov sarebbe dovuto rimanere qualche minuto prima di raggiungere l’esterno. Questo ambiente intermedio tra la Voskhod 2 e lo Spazio era necessario perché la capsula non poteva essere aperta direttamente all’ambiente spaziale, altrimenti si sarebbe depressurizzata senza la possibilità di riportarla alla giusta pressione una volta conclusa la passeggiata spaziale.

I veicoli spaziali, così come le tute per le attività extraveicolari, hanno sistemi di mantenimento della pressione per compensare il vuoto pressoché totale dell’ambiente spaziale, nel quale sarebbe altrimenti impossibile sopravvivere. Se il veicolo non può essere depressurizzato, si utilizza un airlock: l’astronauta nella sua tuta pressurizzata si chiude alle spalle il portello del veicolo e ne apre poi un secondo verso l’esterno, in modo che la navicella continui a essere isolata dall’ambiente spaziale. Sulla Voskhod 2 si era scelto di utilizzare un airlock gonfiabile, adattando una capsula che altrimenti non sarebbe stata idonea per una missione con una EVA.

Rappresentazione schematica della Voskhod 2 (Roscosmos)

Leonov uscì dal portello dell’airlock alle 9:34, fluttuando lentamente e osservando la grande curvatura della Terra. In un unico colpo d’occhio riusciva a vedere dallo stretto di Gibilterra fino al mar Caspio: uno spicchio del nostro pianeta largo cinquemila chilometri. Collocò una cinepresa sull’estremità dell’airlock in modo da riprendere, insieme a un paio di telecamere, la prima volta in cui un essere umano galleggiava intorno alla Terra, ma si accorse presto di avere seri problemi di mobilità.

La tuta pressurizzata si era gonfiata troppo, al punto da non permettergli di muoversi agilmente, in una situazione mai sperimentata prima. Era come se fosse all’interno di un grande palloncino, gonfio e teso che opponeva resistenza a ogni suo movimento. Il cavo di circa 5 metri che lo teneva collegato alla capsula spaziale riduceva ulteriormente le possibilità di muoversi. Leonov aveva una fotocamera installata sulla propria tuta con cui avrebbe dovuto fotografare la Voskhod 2, ma non riuscì a premere il tasto dell’otturatore per fare qualche scatto. Dopo 12 minuti e 9 secondi recuperò a fatica la cinepresa sull’airlock e iniziò la procedura per rientrare nella capsula, ma la tuta era diventata troppo ingombrante.

Leonov raccontò di avere rischiato di rimanere incastrato mentre cercava di entrare nell’airlock e di chiudere il portello che dava verso l’esterno, prima di poter aprire quello della capsula spaziale. Non avendo molto tempo e soprattutto nessuna alternativa, decise di ridurre la pressione all’interno della tuta, correndo il rischio di soffrire gli effetti potenzialmente mortali di una rapida decompressione. I sensori della tuta registrarono un aumento della temperatura corporea di quasi 2 °C in appena venti minuti e Leonov avrebbe raccontato in seguito di avere grandi quantità di sudore, che sentiva sgocciolare all’interno della tuta.

La riduzione di pressione gli aveva permesso di controllare meglio i movimenti all’interno dell’airlock e di completare la procedura per rientrare nella capsula spaziale, dove lo aspettava Belyayev. Leonov disse di non avere comunicato al centro di controllo di avere lievemente sgonfiato la tuta, ritenendo che quell’informazione avrebbe potuto generare qualche apprensione e soprattutto mettere in imbarazzo la trasmissione in diretta sulla sua impresa (in seguito si scoprì che la procedura di riduzione della pressione nella tuta era stata prevista in fase di addestramento).

La diretta era comunque già stata interrotta all’insorgere delle prime difficoltà, in modo che il regime sovietico non dovesse darne conto. I dettagli su come andarono le cose quel giorno divennero noti solo anni dopo, quando furono desecretati diversi documenti alla fine della Guerra Fredda. Per Leonov e Belyayev non era comunque finita.

I cosmonauti Pavel Belyayev e Alexei Leonov a Mosca nel 1965 (Keystone/Hulton Archive/Getty Images)

La Voskhod 2 ebbe diversi imprevisti anche all’avvio della delicata fase di rientro nell’atmosfera per il loro ritorno sulla Terra. A causa degli spazi ridotti all’interno della capsula, tardarono quasi un minuto nel prepararsi per la discesa e questo insieme ad alcuni problemi nel sistema di navigazione fece cambiare di quasi 400 chilometri il punto di arrivo al suolo della navicella. Finirono in una fitta foresta nel territorio russo di Perm, a ovest della catena degli Urali, e le squadre di soccorso impiegarono quasi quattro ore prima di identificare il loro punto di arrivo.

L’area era densa di alberi e sarebbe stato impossibile fare atterrare nelle vicinanze l’elicottero che avrebbe dovuto recuperare i due cosmonauti. Dopo avere superato l’atmosfera e girato intorno al mondo, Leonov e Belyayev si dovettero confrontare con problemi terra-terra, come sopravvivere una notte in una foresta con temperature ampiamente sotto lo zero. Dall’elicottero furono lanciati viveri e coperte, mentre i due cosmonauti si attrezzarono per trascorrere la notte e difendersi dall’eventuale passaggio di qualche orso nella zona.

Il giorno dopo una squadra di recupero raggiunse Leonov e Belyayev sugli sci e preparò un riparo in legno per i due cosmonauti, provati dal loro viaggio nello Spazio e dalla notte al freddo. Ne trascorsero un’altra nella zona, questa volta al caldo e con l’assistenza dei soccorritori, poi il giorno dopo raggiunsero un’ampia radura nella foresta dove furono recuperati da un elicottero e infine riportati a Baikonur.

Un francobollo commemorativo per la prima attività extraveicolare nella storia, emesso nell’Unione Sovietica

La Voskhod 2 fu recuperata e in seguito trasportata in un museo di Korolev, vicino a Mosca, dove è esposta ancora oggi. Leonov tornò nello Spazio dieci anni dopo nell’ambito della Apollo-Soyuz, una missione dall’alto valore simbolico perché la prima a essere realizzata congiuntamente dall’Unione Sovietica e dagli Stati Uniti. Quella volta al di là del portello non c’era l’ambiente spaziale ad attendere Leonov, ma l’astronauta della NASA Thomas P. Stafford: i due in seguito divennero grandi amici.

Negli anni seguenti, Leonov lavorò per il programma spaziale sovietico e poi russo, fino al suo pensionamento nei primi anni Novanta. Morì nel 2019 a 85 anni, ma la sua esistenza sarebbe potuta finire cinquant’anni prima mentre fluttuava con la Terra ai suoi piedi. Aveva con sé una pillola per uccidersi, se non fosse riuscito a tornare all’interno della capsula. Eppure, la passeggiata spaziale del 1965 non fu l’unico primato di quella missione.

A Leonov piaceva disegnare e in un momento libero negli spazi angusti della Voskhod 2 trovò il tempo di fare un piccolo schizzo di un’alba orbitale, la prima opera d’arte realizzata nello Spazio.