Com’era stata la spesa militare dell’Europa finora

Il piano di riarmo la riporterebbe a livelli simili a quelli della fase finale della Guerra fredda, negli anni Ottanta

Un Eurofighter Typhoon dell'Aeronautica militare italiana all'Airpower Show del 2024, a Zeltweg, in Austria (Mario Skraban/Getty Images)
Un Eurofighter Typhoon dell'Aeronautica militare italiana all'Airpower Show del 2024, a Zeltweg, in Austria (Mario Skraban/Getty Images)
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Nel dibattito che si è sviluppato attorno al piano di riarmo europeo viene da giorni espressa, da più parti, la preoccupazione per un incremento della spesa «senza precedenti» e per una torsione dell’industria europea verso una «economia di guerra». Sia i partiti di sinistra sia quelli di destra hanno parlato di “corsa agli armamenti”, rievocando scenari da guerre mondiali. Analizzando il contenuto e il funzionamento fin qui noti del piano ReArm Europe, e basandosi sugli obiettivi indicati dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, l’aumento complessivo della spesa in difesa in rapporto al prodotto interno lordo (PIL) dell’Unione Europea potrebbe effettivamente aumentare molto, ma non senza precedenti: dall’1,9 per cento si arriverà verosimilmente, non prima del 2028, a spendere circa il 3 per cento.

Si tratta di una stima, per il momento, che potrà essere corretta in un senso o nell’altro in modo non significativo. In ogni caso, la traiettoria che ReArm Europe proietta nel prossimo futuro porterebbe l’Europa a tornare grosso modo ai livelli di spese militari che c’erano fino alla fine degli anni Ottanta, nella parte conclusiva della Guerra fredda.

Naturalmente questo non significa che il piano non debba destare preoccupazioni, o che non possa essere criticato da una prospettiva contraria ai riarmamenti e favorevole a percorrere vie più dialoganti. Ma tra gli altri lo storico dell’economia Adam Tooze, uno dei più autorevoli in materia e tra i più apprezzati anche nella sinistra statunitense, ha mostrato che si rimarrebbe comunque notevolmente lontani dai livelli di spesa militare che caratterizzarono le due guerre mondiali, quando i paesi destinavano ai loro eserciti tra il 20 e il 50 per cento del PIL.

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Von der Leyen ha detto in particolare che l’Unione deve porsi l’obiettivo del 3 per cento, per garantirsi un’autonomia nella propria difesa e nella propria sicurezza, visto che un po’ tutte le analisi concordano su quella cifra. Ed è in quella direzione che ReArm Europe si muove. Il piano consente ai vari Stati membri, e per certi versi li sollecita a farlo, di derogare dalle attuali regole di bilancio del Patto di stabilità e di ricorrere a investimenti straordinari per aumentare nell’arco di 4 anni le proprie spese in difesa, per una cifra equivalente al massimo all’1,5 per cento del loro PIL.

Per l’Italia, che tra i principali paesi europei è quello che spende meno in difesa insieme alla Spagna, e cioè l’1,54 per cento del PIL nel 2024, utilizzare tutto lo spazio fiscale straordinario consentito da ReArm Europe significherebbe arrivare nel 2028 a poco più del 3 per cento, in linea dunque con gli auspici di von der Leyen. L’ultima volta che l’Italia ha destinato una parte così consistente del proprio PIL alla difesa era il 1966, secondo i dati elaborati dalla Banca Mondiale. Ma è improbabile che ciò avvenga: l’Italia infatti dovrebbe indebitarsi troppo per arrivare a quella soglia, e questo, al di là delle regole europee, potrebbe generare squilibri finanziari e innescare dinamiche negative per il paese sui mercati finanziari. Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti e la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che pure avevano più volte invocato lo scorporo delle spese per la difesa dal Patto di stabilità, hanno detto che non intendono ricorrere a questa possibilità.

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Più verosimilmente, secondo stime preliminari elaborate dai ministeri dell’Economia e della Difesa, l’Italia arriverà nei prossimi 3 o 4 anni a spendere tra il 2,1 e il 2,3 per cento del proprio PIL in armamenti. Se così fosse, l’Italia tornerebbe ai livelli di fine anni Sessanta e fine anni Ottanta, cioè tutta la fase centrale della Guerra fredda, quando il paese era sulla cosiddetta “cortina di ferro”: la linea di demarcazione immaginaria tra l’Occidente che si riconosceva nella NATO e nella guida degli Stati Uniti, e il blocco comunista che gravitava intorno all’Unione Sovietica.

Dopo la caduta del muro di Berlino e la progressiva distensione tra Stati Uniti e Russia, la spesa in difesa in Italia calò drasticamente come in tutta Europa. Nel decennio tra il 1988 e il 1998, gli Stati membri dell’Unione ridussero in media la loro spesa in armamenti dal 2,6 all’1,8 per cento del PIL. E il calo proseguì, sia pure in maniera meno netta, nei successivi quindici anni. Le cose iniziarono a cambiare dal 2014: quando, in seguito all’annessione illegale della Crimea da parte della Russia, i paesi aderenti alla NATO, su sollecitazione statunitense, si impegnarono a portare la loro spesa in difesa almeno al 2 per cento del PIL in un tempo ragionevolmente breve. Dei 32 membri che aderiscono alla NATO, sono 8 al momento quelli che non hanno ancora raggiunto questo obiettivo: l’Italia è tra questi, l’unico membro del G7 insieme al Canada al di sotto di quella soglia.

Nel marzo del 2022 il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, del PD, indicò per la prima volta il 2028 come l’anno in cui verosimilmente l’Italia avrebbe raggiunto l’obiettivo del 2 per cento. Una previsione confermata anche dal suo successore Guido Crosetto, di Fratelli d’Italia. Se dunque si confermassero le stime preliminari che circolano nel governo intorno all’impatto finanziario del ReArm Europe, di fatto l’Italia confermerebbe i propri impegni, correggendoli leggermente al rialzo.

Un po’ diverso è il discorso per la Germania, che ha annunciato un grande piano di spesa pubblica straordinario, in deroga ai propri tradizionali vincoli di bilancio, col quale destinerà circa 400 miliardi alla difesa nei prossimi anni. È una cifra considerevole: si tratta, grosso modo, del 9 per cento del PIL tedesco, ma da diluire per tutta la durata del piano. Le proiezioni condivise dal governo tedesco coi colleghi europei stimano un aumento progressivo nei prossimi 3 o 4 anni fino ad arrivare intorno al 3 per cento nel 2028, che è grosso modo ciò che la Germania – o meglio: la Repubblica federale tedesca, cioè la Germania Ovest – destinava alla difesa negli anni Settanta e Ottanta, fino alla riunificazione.

Se dunque la portata del ReArm Europe verrà sfruttata a pieno, la spesa militare europea aumenterebbe in maniera netta, ma rimarrebbe lontana dalle dimensioni tipiche di un’economia di guerra. I principali Stati europei coinvolti nella Seconda guerra mondiale triplicarono, quintuplicarono e in certi casi decuplicarono la loro spesa militare nel giro di tre o quattro anni a ridosso del 1939. Secondo i calcoli di Tooze, Francia e Regno Unito spendevano il 3 per cento del PIL in difesa nel 1933, quando Adolf Hitler divenne cancelliere tedesco; nel 1939 la spesa era rispettivamente del 23 e del 21,4 per cento del PIL. Nello stesso periodo, la Germania passò dall’1,1 al 25 per cento del proprio PIL. L’Ucraina, per fare un raffronto più attuale, nel 2021 spendeva in difesa il 3,4 per cento del proprio PIL; nel 2023, il 36,7 per cento.

Dall’inizio della guerra in Ucraina, l’Unione ha speso nel complesso in difesa circa 300 miliardi di euro all’anno, più del triplo della Russia. Ma questa differenza, come ha spiegato tra gli altri l’Osservatorio sui conti pubblici italiani, è dovuta in larga parte al grosso divario dei prezzi e dei salari nei paesi europei rispetto alla Russia: in Europa, i soldati prendono stipendi molto maggiori, e produrre macchinari, dispositivi e munizioni militari costa di più per i prezzi più alti delle materie prime e per i maggiori standard di sicurezza. Correggendo queste distorsioni, i livelli di spesa effettivi tra Europa e Russia sarebbero più o meno gli stessi.

La cosa in cui il piano sembra ancora poco efficace è la sua effettiva capacità di razionalizzare le spese e coordinare gli investimenti tra i vari paesi membri, così da ridurre la frammentazione della spesa militare dei 27 Stati dell’Unione, che è andata aumentando nel corso degli anni nonostante i vari programmi di investimento promossi. I dettagli noti sul funzionamento effettivo del piano, ancora da chiarire in vari aspetti, sembrano indicare uno sforzo della Commissione per favorire commesse condivise da almeno due paesi e una maggiore integrazione delle infrastrutture e dei sistemi d’arma, oltre che una priorità data agli acquisti da industrie europee del settore. Ma il grosso della responsabilità di pianificazione e di spesa resta ancora in capo ai singoli governi.